Arte

Henry Moore, una mostra di disegni degni del grande scultore

Qualche domenica fa ho criticato l’accoppiata Rodin-Arp proposta dalla Fondazione Beyeler di Basilea affermando che sarebbe stato molto meglio sostituire il secondo con Henry Moore, forse lo scultore che meglio nel secolo scorso sembra aver assunto in toto l’eredità del grande francese. Ora, a conferma di questa mia osservazione, viene una mostra al Museo del Novecento di Firenze dedicata solo ai disegni dell’artista, ma ovviamente la città del Giglio si può vantare di aver già ”dato” a Moore ospitando, nel 1972, una sua grandiosa mostra sulla spianata del Forte del Belvedere, la migliore tribuna, forse nel mondo, che uno scultore possa augurarsi. Là, ovviamente, Moore dava prova di sé con enormi opere, perfetta esibizione di quella specie di risorgenza di teschi e scheletri di favolosi animali preistorici. Ma sia ben chiaro che nel suo laboratorio l’artista, come quasi tutti i plastici di tutte le età, procede a modellare piccoli formati, dando poi il compito alle maestranze di ingrandire nelle dimensioni richieste ai fini celebrativi ai quali un’arte del genere risulta del tutto affine. Il solo Michelangelo scolpiva dal vivo e nel formato richiesto. Invece un maestro del fare piccolo per poi ingrandire è stato Canova, e proprio in questo sta una ragione della sua importanza e attualità, che però in tanti cercano ancora di contestare. Ma Moore, accanto all’impegno nei volumi, era pure un eccellente ricercatore di validi spunti in natura, da raccogliere con l’arma del disegno, come appunto attesta la mostra fiorentina. Si deve ammirare l’intelligenza, l’elasticità mentale dell’artista, che sa trovare il suo bene dovunque. Per esempio, nella pelle zigrinata, piegata in soffici borse, di un elefante, o nel manto villoso, gonfio a dismisura, di una pecora. Nel repertorio entrano anche le braccia e le mani di noi essere umani, allacciate tra loro come molli elastici nella pretesa di afferrare lo spazio, come dei vimini, dei giunchi flessibili. Da notare che la mostra fiorentina, pur eccellente proprio nel far apparire la varietà di stimoli che l’artista era pronto ad afferrare guardandosi attorno, rinuncia a documentare tutto un capitolo, quello in cui domina la figura umana presa al completo, ma immersa nel “tube”, e mai la parola inglese funziona meglio, sia in senso materiale che metaforico. Come si sa, è un termine che si riferisce ai tunnel della metropolitana, in cui una umanità dolorante si rifugiava quando Londra cercava scampo dai bombardamenti a tappeto inflitti dalla Luftwaffe. Qui, mi pare, c’è un unico disegno a riempire questa casella, di un’esile sagoma umana a confronto con la presenza massiccia e schiacciante di una grotta, in un partita tragicamente impari. Molto importante che in questa rassegna non manchi una produzione particolare di Moore, affidata a dilaganti chiazze cromatiche, come cortine fumogene iridescenti e cangianti. E’ un altro degli aspetti che confermano una possibile linea di successione da Rodin. Non dimentichiamo che egli è stato pure, soprattutto negli ultimi anni della sua lunga carriera, un estensore di acquerelli affidati appunto alla stesura di morbide chiazze, da cui è venuto un valido spunto anche per Paul Klee, in una fase giovanile della sua attività, del resto mai dimenticato anche in seguito. Ma mi si permetta di condurre un altro accostamento: in quei fogli di Moore maculati, ai limiti con l’Informale, mi pare di cogliere un equivalente di una intuizione del nostro Boccioni, quando ha affermato che sarebbe venuto il tempo in cui la scultura, ovvero l’invasione dello spazio si sarebbero fatte con gas leggeri e immateriali. Anche questo aspetto entra nell’ampio ventaglio di possibilità che lo scultore inglese, in preda al demone della mobilità e della sperimentazione, ha voluto assaggiare. Non meravigliamoci se da tanto padre è venuta fuori la proverbiale eccellenza che gli scultori inglesi hanno confermato in tutto il secondo Novecento, con Tony Cragg in testa.
Henry Moore, Il disegno delle sculture, a cura di S. Risaliti e S. Barassi, Firenze, Museo del Novecento, fino al 18 luglio.

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