Mi ero espresso già due volte a pieno favore di altrettante opere di Francesco Abate, quali “Mia madre e altre catastrofi”, esilarante battibecco tra una genitrice troppo in linea con le buone maniere e un figlio a sua volta troppo eversivo. Ma trascinante soprattutto l’invenzione che sta alla base di “Torpedone trapiantati”. in cui il titolo già la dice lunga, si tratta infatti di una combriccola di soggetti che sono stati sottoposti a qualche trapianto e che se ne vanno per una specie di vacanza-premio, quasi per dimenticare il trauma subito, ma pronti anche a inneggiare ai rispettivi donatori, e incerti se gustare le gioie di una piena esistenza ritrovata o pagare qualche tributo alle entità superiori che li hanno protetti e salvati. Non so perché mai Abate ora abbia deciso di fare un passo indietro, rispetto a questa frizzante attualità in presa diretta, cedendo anche lui al fascino del passato, del romanzo storico, che poi non lo è del tutto, in quanto l’arretramento si ferma in genere, presso questi affrettati cultori del passatismo, agli inizi del secolo scorso. E’ una tentazione costata cara a quanti vi hanno acceduto, forse con le sole eccezioni di Pennacchi, che ha recuperato davvero le radici di una povera gente emigrata da un Veneto sottoposto ai morsi della fame, cercando salvezza nelle paludi Pontine da risanare. E soprattutto abbiamo avuto di recente l’eccezione di Scurati, col suo maestoso occuparsi di Mussolini, ma col rischio di uscir fuori dai canoni del romanziere per entrare in quelli dello storico tout court. Il lato infelice insito in questi passi indietro sta nell’ambiguità tra il rispetto di una verità documentaria, con qualche credibilità filologica, e invece l’impulso a rileggerla in chiave di attualità, appiccicando ai fatti lontani aspetti e umori ben noti alla nostra scena attuale, ma in tal modo creando nocivi effetti di disturbo. Si prenda proprio a esempio di tali spiacevoli esiti “I delitti della Salina”, la recente prova del nostro Abate, di cui seppure obtorto collo mi accingo a dire male. Intanto, è alquanto inverosimile la protagonista, una strana combinazione tra caratteri etnici cinesi e invece tratti sardi, dato che è stata adottata da un personaggio in vista della comunità cagliaritana, tale Francesco Paolo Simon, che peraltro scompare troppo presto dalla scena, lasciando la figlia a gestire in prima persona l’imbarazzo di quella sua natura così ibrida, così in contrasto con la gente del luogo. Un simile imbarazzo, o nota stridente, accompagna ogni gesto della nostra Clara, a cui viene assegnato, dall’autore, reo di anacronismo, un lavoro che certo sarebbe pienamente adeguato ai nostri giorni, quello di brillante giornalista d’assalto, decisa a battersi contro la delinquenza, contro i torti e soprusi che sia la malavita organizzata, sia la razza padrona, commettono nel cagliaritano, e in particolare nello sfruttamento delle saline, massimo bene comune di quella popolazione. Abate è come un giocatore di scacchi che fa compiere alle sue pedine delle audaci sortite, vedendosi però costretto a indietreggiare poco dopo. La nostra Simon si comporta come solo un secolo dopo sarà consentito alle sue colleghe in gonnella, e dunque viene subito redarguita, per esempio non può firmare in prima persona i suoi attacchi, le sue denunce, deve appunto fare un passo indietro, e mettersi sotto la protezione di un collega al maschile, tale Ugo Fassberger, che, lui sì, ha la licenza di uccidere, magari assumendosi la paternità degli articoli veementi stesi da quella compagna, sempre decisa ad andare sopra le righe. Poi, come in ogni gallo dei nostri giorni, sia esso in versione cartacea o filmica o televisiva, non può mancare l’innamoramento. Le mosse spregiudicate della nostra Clara vengono protette da un avvenente ispettore, Saporito di nome e di fatto, che in parte le si concede, in parte resta incorruttibile a difendere il braccio giusto della legge. Ma contro chi si rivolgono gli strali della nostra giornalista d’assalto, troppo in anticipo sui tempi giusti? La causa delle sue indagini sta nella morte di tanti ragazzini, detti nel dialetto locale “piciocus de crobi, ma qui le carte dell’intrigo si imbrogliano, a chi la colpa di aver fatto annegare a decine questi poveri ragazzi? Sono stati i padroni delle saline, che si sono disfatti di quei miseri braccianti, quando non ne hanno avuto più bisogno, o sono loro stessi a essersi resi colpevoli di qualche spaccio di doga, di qualche collusione con trafficanti illeciti? Purtroppo Abate in merito è incerto, o almeno io stesso, forse perché lettore distratto, non saprei rispondere a un simile quesito. Sono però ben fermo nell’esortare il mostro autore a ritornare il prima possibile a frequentare la sua bella, frizzante, tonificante attualità-
Francesco Abate, I delitti della salina, Einaudi stile libero, pp. 290, euro 18.