Arte

Ron Gorchov nel quadro di Pittura-ambiente

La scarna notizia della scomparsa dell’artista statunitense Ron Gorchov, a novant’anni esatti d’età (nato nel 1930) mi porta a ricordare la mostra “Pittura-ambiente”, a Milano, Palazzo Reale, 1979, a cui lo avevo invitato. A proposito di quella manifestazione, da me allestita con la viva partecipazione di Francesca Alinovi, ahimé destinata a sparire tragicamente qualche anno dopo, mi sento indotto a ricordarne alcuni aspetti, Era stato il mio esordio in un’attività presso il Comune di Milano a cui mi aveva invitato il miglior sindaco che la città ambrosiana ha avuto nel dopoguerra, Carlo Tognoli, assieme ad altri colleghi come Flavio Caroli e Vittorio Fagone. Eravamo scelti secondo il criterio partitico allora ineliminabile, io a rappresentare il Garofano, come lo stesso sindaco, quindi, diciamolo pure, in una posizione con qualche privilegio. Caroli allora batteva bandiera Pc, poi da lui totalmente tradita. Fagone era ancor più spostato sulla sinistra. In qualche misura recavamo un torto a Mercedes Garberi, direttrice delle collezioni comunali milanesi, che quindi ci fu alquanto ostile, sentendosi usurpata nei suoi diritti. Io ebbi una valida intuizione, esplorando i meandri del Palazzo Reale, allora sottoposto a una lunga ristrutturazione. Mi chiesi che cosa c’era al secondo piano, dove scopersi una serie di stanze affacciate a un lungo corridoio, malamente occupate da uffici burocratici. Erano altrettante magnifiche celle per ospitare delle installazioni, ovvero delle opere ambientali, come si diceva dal ‘ 68 in poi. Sono spazi tanto validi, che anche ora vengono sfruttati dal Museo del Novecento, che paga la sua centralità nel contesto cittadino con la limitazione di spazi strappati con le unghie, in parte nell’Arengario e poi, proprio con una avventurosa passerella, andando all’arrembaggio di quella serie di stanze confinanti. Pittura-ambiente era una “callida iunctura”, si può dire, tra un fattore sessantottesco, appunto l’arte espansa che balza fuori dalle pareti, cui personalmente avevo recato un buon contributo alla Biennale di Venezia del ’72 svolgendo il tema del “comportamento”, in accordo con Francesco Arcangeli, paladino dell’”opera” ancora realizzata in termini pittorici, ma aperto alle novità dell’altra parte del fronte. In seguito però, aderendo al ritmo pendolare in cui ho sempre creduto profondamente, nel ’74 ho organizzato “La ripetizione differente”, e proprio presso una Galleria milanese, lo Studio Macroni, in cui avevo capovolto la frittata riscontrando il ritorno dei vecchi valori della pittura e affini. Devo dire che un articolo apparso sul “Bolaffi Arte”, rivista allora molto autorevole, credo a cura di Lucio Pozzi, lui stesso protagonista di quel ritorno agli antichi valori, ci aveva aperto la strada a celebrare questo felice incontro, o processo di ibridazione. L’articolo stesso ci segnalava altri protagonisti statunitensi, accanto a Gorchov, quali Richard Tuttle, Linda Benglis, Mel Bochner. A me e a Francesca riusciva agevole far partecipare al banchetto alcuni nostri preferiti che erano intenti a coniugare aspetti cromatici con espansioni spaziali, come per esempio un apostolo della pittura quasi monocroma quale Claudio Olivieri, che quasi per farmi piacere una volta tanto si rivolse all’esperienza dei “Mobiles” di Calder agganciando al soffitto tante stampelle policrome, E c’era un valido reduce da esperienze informali quale Marco Gastini, e poi i nostri candidati a costituire di lì a poco il gruppo dei Nuovi-nuovi, quali, se ben ricordo, Mainolfi, Spoldi, Zucchini, e in particolare Enzo Esposito. Con riferimento a quest’ultimo, devo precisare che io in quel momento ero “unionista”, insistevo cioè a dire che in questo ritorno a certi aspetti di sensibilismo cromatico i vari fronti della ricerca procedevano all’unisono, tanto che avevo invitato pure una delle punte del fronte transavanguardista che si stava costituendo, quale Mimmo Paladino. Del resto, pochi anni prima, riconoscendone appieno la validità, lo avevo inviato in una mostra alla Galleria bolognese Duemila, che mi serviva come banco di prova per nuove proposte. Paladino arrivò e prese visione di quella suite di distanza, ma sul percorso incontrò l’installazione di Esposito, che in quel momento accusava di avergli rubato quelle immagini sciolte, in libera uscita sulla parete. Trascolorò a quella vista e se ne andò sdegnato. Devo però precisare che in seguito i due si sono riconciliati, anche per le comuni origini beneventane, tanto da autorizzarmi a metterli in mostra insieme, anche con un altro campano quale Mainolfi, e pure con un quarto loro conterraneo come Nicola De Maria. Anche a lui era giunto il mio invito, ma neppure mi rispose. In definitiva, e per distinguerci dall’ambito della Transavanguardia, quegli espositori in genere evitavano ogni riferimento iconico. Come è proprio nel caso di Gorchov, con cui è giusto che io chiuda questo discorso, il quale proponeva come degli scudi, o delle corazze di testuggini, animate da segni cabalistici. Un modo sicuramente ingegnoso di investire lo spazio con tracciati densi ed enigmatici.

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