Ho conosciuto Dacia Maraini alla corte di Alberto Moravia, cioè nell’appartamento del tutto borghese che aveva nel quartiere Prati, a cui fui ammesso per il fatto che, tra gli esponenti della neoavanguardia, dichiaravo di stimarlo, al pari del resto del numero uno del nostro gruppo, Sanguineti, mentre per gli altri era un idolo da abbattere. Io ne avevo parlato bene nella “Barriera del naturalismo”, cosa che ovviamente gli era stata gradita, ma in occasione di un pranzo mi rimproverò per non aver dato ospitalità in quelle pagine alla ex-moglie Elsa Morante. Rispettosamente gli feci notare che il capolavoro di lei, “Menzogna e sortilegio”, era del tutto al di qua della “barriera” da me eretta, anche se poi, non mi sono ricreduto sulla natura di un simile giudizio, ma sul valore intrinseco dell’opera, sì. Accenno a questo fatto per ricordare una virtù di Moravia, di prodigarsi per le sue donne, passate e presenti, e infatti in quel momento il suo interesse andava tutto alla promozione di Dacia, al punto da volerle aprire uno sbocco presso la neoavanguardia chiedendo a me di introdurre un suo romanzo di quegli anni “A memoria”, cosa che feci più che volentieri. In seguito, mentre è continuata la mia stima per Moravia, c’è stato un divorzio completo dalla Maraini, con vergogna reciproca, da parte mia, di aver accettato di fornirle un salvacondotto verso il Gruppo 63, e da parte sua per aver abbozzato una mossa di avvicinamento ad esso. In forza proprio di queste due rotte divergenti, in seguito mi sono occupato ben di rado dell’industre laboratorio di Dacia, forse avrei dovuto parlare della sua opera più nota e meglio riuscita, quella dedicata a Marianna Ucria, mentre sono intervenuto in misura molto limitativa a proposito di “La bambina e il sognatore”, considerato troppo a rimorchio di dati di cronaca, come del resto è nella parte ufficiale che la nostra scrittrice ha assunto sul “Corriere”, di testimone e fustigatrice di fatti del costume nostro quotidiano. Ora francamente non so perché abbia esumato, pare da vecchie carte del passato, una vicenda magra e alquanto inverosimile come “Trio”, oppure sì, c’è la concomitanza con l’attuale fase del coronavirus, infatti anche quella storia emergente dal passato è contrassegnata da duri episodi di peste che imperversavano nella Sicilia del Settecento. Senza dubbio è utile fare un confronto su come si svolgevano allora i frequenti e rovinosi episodi di pestilenze e come si sono svolti al giorno d’oggi. Allora, chi poteva, i benestanti, fuggivano dai centri abitati rifugiandosi in villa. Basti pensare alla peste fiorentina che induce quella decina di giovani di buona famiglia a rifugiarsi nel contado e a passare il tempo a raccontarsi delle novelle, da cui il favoloso “Decamerone” del Boccaccio. Oggi al contrario siamo stati chiamati a chiuderci nelle rispettive case, magari dialogando per via telematica. Allora il dialogo avveniva per via epistolare, a quanto pare il sistema postale, seppure a rilento, non veniva interrotto, E dunque due nobildonne, Agata, sposa di Girolamo, con figlio, e Annuzza, nubile, unite per ragioni di età, di stato sociale, di educazione, e dunque di profonda amicizia, restano unite attraverso un fitto scambio di missive. Ma c’è un dato di fatto che rende questo dialogo del tutto inverosimile, in quanto entrambe sono innamorate dello stesso uomo, appunto del bello, fosco, tenebroso Girolamo, impenitente, disposto a fare i comodi suoi, che infatti passa imperturbabile da un nido all’altro. Un pizzico di comune psicologia vorrebbe che un simile stato di fatto infliggesse nelle due donne una profonda ferita, mandando in frantumi la loro pur solida amicizia di partenza, qui invece le due continuano senza sosta il loro dialogo, scambiandosi le più calde professioni di amore reciproco. Non so se in merito la Maraini si è ricordata del “Jules e Jim”, il romanzo di Henri-Pierre Roche, divenuto noto soprattutto per il film che Truffaut ne ha ricavato, assegnando a una eccellente Jeanne Moreau il compito di fare la spola tra i due amanti, con ritmo quasi pendolare. Qui invece, a livello cartaceo, spetta, come detto, al cinico, indifferente, strafottente Girolamo condurre questo gioco di sponda. La vicenda è tanto esile, paradossale, mal fondata, che ritengo molto improbabile che qualche regista ne voglia trarre un film. Resta solo un’opera marginale nel corpus della nostra scrittrice, sperando che se ne voglia riscattare al più presto con qualche contributo più impegnativo.
Dacia Maraini, Trio, Rizzoli, pp. 106. euro 16.