Ho ritenuto mio dovere civico recarmi a visitare la grande mostra sugli Etruschi, apprestata con tanta cura dal Museo archeologico di Bologna, bloccata dal lockdown, ma risarcita da un prolungamento di prestiti che va fino alla fine dell’anno. Naturalmente scarsa è la mia competenza in materia, ma posso ricordare un mio saggio, riassuntivo di molti anni di studio, “ Arte e cultura materiale in Occidente” (malamente edito da Bollati Boringhieri che non ha tardato a mandarlo al macero), il cui sottotitolo indicava di voler partire dall’arcaismo greco. E dunque mi ero pur dovuto occupare di un periodo del tutto affine ai primi secoli della vicenda etrusco, quando su tutte le civiltà del mediterraneo dominavano alcune forme standard. In Grecia, erano i “kouroi” e le “Korai”, con la loro verticalità assorta, braccia incollate ai dorsi, sulle bocche quei sorrisi enigmatici che si usano legare ai reperti di Egina, e soprattutto occhi a mandorla, quasi da mongoloide, che sono il tratto più inconfondibile e identitario di tutta quella popolazione di icone delle origini. Nel voluminoso catalogo della mostra bolognese hanno fatto bene a porre in copertina una testa di Acheloo, rispondente a un simile stereotipo, con in più un tratto aspro, barbarico, che forse è proprio quanto caratterizza la produzione etrusca rispetto ai cugini greci della medesima fase arcaica. Poi in Grecia, si sa, circa dalla metà del V secolo a.C. in giù, si sviluppa un fenomeno unico, la famosa classicità, ovvero i corpi si articolano, le braccia si sollevano nei gesti, i lineamenti del volti si precisano inseguendo ideali di bellezza. E’ appunto quell’aura classica sacra che purtroppo dà ragione ai teoremi schematici che tanti secoli dopo ne trarrà il Winckelmann. In tutte le varie colonie etrusche non ci fu niente di simile, il che mi induce a credere che i busti di giovinetti, serenamente modellati e di perfetto mimetismo qui dati in catalogo ai numero 83 e 84, non appartengano al III° a.C. ma presuppongono che i modelli della classicità greca fossero già pervenuti a Roma. Quell’arte romana che del resto, allo stesso modo degli Etruschi che l’avevano anticipata, fu pur essa incapace di giungere alla classicità, se non sottraendola proprio ai modelli Greci, secondo l’aureo detto, dei più validi e incontestabili, per cui “Graecia capta ferum victorem cepit”. Ritornando agli Etruschi, vi domina a lungo la “coiné” mediterranea delle forme rigide, impalate e degli occhi a mandorla, magari risolti in modi meno maestosi e in misure più ridotte, ma senza varcare quella soglia e avviarsi a un mimetismo pieno e risolto. Forse perché Le varie Vetulonia, Populonia, Cerveteri, Felsina, Capua non ebbero mai quella perfetta articolazione di organi di governo che probabilmente è la sponda materiale che ha consentito la perizia anatomica della scultura greca dei secoli d’oro, e non ci fu neppure una speculazione filosofica ugualmente articolata. Ma gli Etruschi ebbero una loro indubbia invenzione, pronti a trasmetterla ai conquistatori latini, quella delle tombe sormontate da un singolo personaggio o da una coppia di coniugi, nelle pose che poi sarebbero state riprese in versione prosaica dai banchettanti romani, con quel modo che a me sembra molto scomodo di stare a tavola adagiati nei triclini, con un braccio appoggiato all’indietro e una sola mano libera di muoversi. In fondo, i defunti etruschi partecipano alla vita eterna come se fosse un interminabile banchetto, e beninteso i lineamenti dei volti confermano la fattura “mongoloide”, ma l’occasione spinge a dare alle figure un realismo che è un altro dei tratti propri di quella cultura, pronto a passare in eredità ai Romani. I Greci, catturati dai loro ideali di perfezione fisionomica, ignorano le impure tentazioni del realismo, che invece si riscontrano in questi banchettanti etruschi, si veda per tutti “Il sarcofago degli sposi” che giunge in mostra dal museo romano di Valle Giulia. Non solo, ma un simile fare i conti con una realtà scabrosa si comunica anche ai bassorilievi su cui i defunti posano, anche questi modellati con un più di barbarie quasi di sapore espressionista che invano cercheremmo in sarcofaghi equivalenti della produzione greca. Caso mai, un tramando dagli Etruschi ai Romani lo troveremo quando, dopo l’età augustea, tutta presa dal compito di imitare la classicità greca, questi ultimi si daranno a modellare le loro colonne trionfali, prive di riscontri nella cultura greca, dove in definitiva saranno liberi di riprendere modalità violente, intinte, in fondo, in quello stesso barbarismo che in qualche misura mutuavano dal carattere selvaggio delle popolazioni sottomesse.
In queste mie riflessioni da non competente io procedo con un metro da grossista, quindi non mi impiccio dell’infinita serie di oggetti di cultura materiale che pure costellano e arricchiscono la mostra bolognese, mentre una riflessione comparativa andrebbe svolta tra gli esiti pittorici cui giunsero gli Etruschi, e i corrispondenti al solito riscontrabili nell’inevitabile termine antagonista costituito dalla Grecia. Ma di questa produzione si sa quasi solo quanto è emerso dagli scavi di Pompei. Per quanto riguarda i risultati etruschi, si veda “Scena di banchetto aristocratico”, n, 57.7. proveniente dai Musei Vaticani. E’ proprio il trionfo di quelle pose da banchettanti, una volta tanto sottratte al malo auspicio della morte, invitate anzi a essere serene, sciolte, essenziali in una fattura ad ampie macchie, rallegrata pure da motivi vegetali ornamentali. E’ un settore in cui, per quanto si può dire, l’Etruria batte il rivale greco.
Etruschi, a cura di un folto gruppo di studiosi, Bologna, Museo Archeologico, fino al 19 novembre. Cat. Electa, pp. 516.