L’anno scorso avevo finalmente rivolto un’attenzione positiva ai romanzi di Romana Petri, che agli inizi della sua carriera mi aveva sollecitato a darle qualche riscontro, inviandomi i suoi primi libri con dediche lusinghiere, accolti invece da un mio incivile “no reply”. Poi, appunto l’anno scorso, leggendo un suo ennesimo prodotto, “Pranzi di famiglia”, lo avevo trovato convincente, tra i migliori esiti di quella stagione, tanto da dedicargli un “pollice recto” nella mia rubrica sull’”Immaginazione”, invitandola anche a venire a presentarlo in uno dei pomeriggi che organizzo da qualche anno nel mese d’agosto a Cortina, al Grand Hotel Savoia. E proprio in quell’ occasione la Petri mi aveva annunciato che stava scrivendo una biografia ispirata a Jack London. Sembrava un’opera ancora di lunga gestazione, ma invece evidentemente era di elaborazione molto avanzata, eccola infatti già uscita nelle librerie. Me la sono procurata con ansia per andare a vedere se vi era una conferma della buona opinione che di lei mi ero fatto di recente. Ma direi che è di ostacolo il genere in cui questi ennesimo lavoro della nostra autrice si colloca, la biografia, per quanto libera e romanzata, dedicata a qualche personaggio divenuto illustre per doti manifestate in qualche suo capolavoro. Questo tipo di approccio fa sì che ci sia l’uomo, o la donna, magari seguiti da vicino, quasi con immedesimazione, ma manca il meglio di loro, cioè proprio i capolavori per cui si sono segnalati. In questo caso, per esempio, nelle pur molte pagine che gli dedica la narratrice, non ci sono i romanzi tipici per cui London è ricordato, e forse ancora presente nei nostri ricordi derivati da letture adolescenziali. Non ci sono né “Il richiamo della foresta”, né “Zanna Bianca”, né “Martin Eden”, per rievocarli il lettore deve attingere a ricordi personali, se mai ce li ha ancora. Diversamente, ci sono senza dubbio tutte le ansie, le incertezze, le angosce, i patemi d’animo che il signor London provava, al momento del concepimento dei suoi romanzi, e anche la lunga scia delle conseguenze, successi o fallimenti. Si aggiunga che il raggio dell’attenzione si apre ad angolo giro, ovvero dell’uomo London veniamo a sapere tante cose, il legame morboso con la madre Flora, i rapporti con le donne che hanno inciso di più sulla sua esistenza, con i loro relativi profili. C’è Bessie che gli dà due figlie, verso cui il nostro autore è assai poco generoso, non se ne cura troppo, le trascura per seguire la sua stella, che lo porta a entrare in altri letti, a stabilire altre relazioni. Succede insomma che l’uomo è inferiore all’opera, come è quasi inevitabile se viene giudicato con questo metro estrinseco. O per meglio dire, sparisce in definitiva l’eroe favoloso che abbiamo amato, attraverso i suoi frutti consegnati ai libri, mentre la lunga sequela delle sue vicende sembra rifluire in uno dei romanzi che la nostra autrice ha dedicato a persone dall’esistenza comune, coi loro alti e bassi, pregi e difetti. Insomma, ritroviamo in definitiva il clima dei “pranzi di famiglia”, liti coniugali, difficili rapporti parentali, problemi finanziari, ma con la differenza che proprio le regole del genere obbligano l’autrice a rispettare un copione pre-esistente, mettono un limite alla sua libertà d’azione. Insomma, si comprende ben presto che esistono due pesi e due misure, quelli da adottare se vogliamo intendere davvero la portata di uno scrittore, ma per fare questo esiste, piaccia o no, la critica letteraria, e altri ben diversi se a entrare sotto la luce dei riflettori deve essere un essere umano comune, come tanti altri, come tutti noi.
Romana Petri, Figlio del lupo, Mondadori, pp. 375, euro 19,50.