Immagino lo sconforto, per non dire il disappunto, la rabbia da cui è stato colto Fabio Roversi Monaco, che a lungo aveva proceduto nel tentativo di ricomporre le membra sparse del Polittico Griffoni. Ci era riuscito, offrendolo alla cittadinanza bolognese, ma diciamo pure urbi et orbi, nel suo spazio museale più importante, Palazzo Fava. Eravamo tutti già pronti a rendere omaggio a quel capolavoro riapparso, ma l’influsso perverso del contagio al momento ce lo ha impedito, speriamo che questa opportunità si ripresenti quanto prima. Intanto però mi è del tutto possibile condurre una visita virtuale all’opera, presente in vari siti. Del resto, come guida eccezionale, disponiamo dell’accurata ricostruzione del Polittico che Roberto Longhi ha condotto in uno dei suoi capolavori, “Officina ferrarese”, procedendo quasi come un detective sulle tracce di un crimine fino a trovarne la soluzione. Devo dire che questo riconoscimento dell’eccellenza del saggio longhiano proviene da un “infedele”, non certo da uno dei tanti devoti seguaci che la sua lezione ha raccolto attorno a sé. Io ho avuto un destino curioso, forse “cinico e baro”, una volta tanto, a mio favore, in quanto i casi della vita mi hanno fatto essere, nei trascorsi anni ’70 e oltre, prima Direttore dell’Istituto di storia dell’arte bolognese, poi divenuto Dipartimento di arti visive, quando ci fu quella trasformazione. E dunque mi sono trovato a comandare su muri che trasudavano di longhismo, io che venivo da storie del tutto diverse, e che non ho mai mancato di recare obiezioni severe ad alcuni dei cardini del Maestro piemontese-toscano. Per esempio, non gli ho mai dato per buona la tesi della discendenza del Caravaggio dai mitici “padani”, a lui invece così cara. Inoltre, da contemporaneista incallito, ho dovuto rimproverarlo dello scarso credito che ha sempre assegnato all’intera arte internazionale del Novecento, se si eccettua un valido interesse giovanile per Boccioni, e poi, oltre la metà del secolo, una qualche partecipazione, ma con cautela, all’entusiasmo suscitato nel migliore dei suoi allievi, Francesco Arcangeli, da un possibile ritorno in scena del tanto amato naturalismo, ma “quantum mutatus ab illo”, e dunque con dubbiosa adesione a quella possibile ricomparsa. E poi, che dire dell’ingiurioso trattamento inflitto a Canova, in cui invece io insisto a vedere un primo passo nella contemporaneità più avanzata e sperimentale?
Ma torniamo alle magnifiche pagine dell’”Officina ferrarese”, dove è giusto trovare appunto la precisa ricostruzione del Polittico Griffoni, perfetta emanazione del clima fervido che per tutto il ‘400 aveva infiammato quella provincia, con un protagonista quale Francesco del Cossa, appena di un gradino inferiore al massimo Cosmé Tura, e un suo allievo, Ercole de’ Roberti, cui si deve l’aver stabilito un ponte verso la vicina Bologna. Che per parte sua in tutto quel secolo era stata alquanto avara di esiti, se si eccettua il celeberrimo “Compianto” di Niccolò dell’Arca, che peraltro è frutto proprio di una dissidenza rispetto ai sacri canoni rinascimentali, dominanti nella vicina Firenze. Bologna è stata avara di risultati brillanti in alcuni secoli, nel Duecento, e poi nel Quattrocento, e si può aggiungere alla lista l’Ottocento. E dunque, non si poteva certo pretendere che Longhi, in quel suo stato di grazia, allungasse il tiro fino a mettere in cantiere una Officina bolognese, di cui però non ha mancato di abbozzare qualche linea. Infatti, proprio a cavallo tra Quattro e Cinquecento noi abbiamo avuto una stagione quasi di primavera, di proto-rinascimento, di timido anticipo di modernità, sotto la cappa protettiva dei Bentivoglio, che avevano la loro chiesa di riferimento in S. Giacomo, e proprio l’annesso Oratorio di Santa Cecilia è un frutto mirabile di quell’epoca, fecondato dai talenti forse un po’ facili, ai limiti col kitsch, si direbbe ora, di Francesco Francia e Lorenzo Costa, ma deliziosi, proprio nella loro freschezza e candore, totalmente diversi rispetto al linguaggio contorto dei Ferraresi. Lo sguardo felice di Longhi si spinge anche oltre quel traguardo, coglie molto bene il linguaggio aspro, già pre-manierista, di Amico Aspertini, cui in effetti la Bologna delle grandi mostre retrospettive concepite da Gnudi, poi lasciate in eredità a Andrea Emiliani, ma in questo caso anche con l’intervento di Daniela Scaglietti, uscita dall’Università, ha dedicato nel 2009 un giusto riconoscimento.
Purtroppo i Bolognese sono stati distruttivi nella loro storia, ciò era già avvenuto nel Trecento, quando avevano distrutto un Palazzo in cui il cardinale Bertrando del Poggetto cercava di far rientrare, ma pro domo suo, il papa dall’esilio di Avignone. E circa due secoli dopo avevano abbattuto la sede del dominio bentivolesco, tanto che ancora oggi da quelle parti esiste una Via del Guasto. E dunque quella tenue primavera venne interrotta, però il filo di espressionismo avanti lettera, o di culto di artisti nordici (non “lombardi”, per carità!) inaugurato da Aspertini continuò a svolgersi. Esorto Roversi Minaco a condurre, in futuro, una serrata indagine sulla Bologna dei decenni centrali del Cinquecento, caratterizzata da Manieristi quali Prospero Fontana e Pellegrino Tibaldi, e da architetti ugualmente audaci che la città felsinea ebbe, a cominciare dal Terribilia. Con loro continuava una storia di dissidenza rispetto ai canoni della “modernità”, invano esaltati dall’arrivo del capolavoro raffaellesco, la Santa Cecilia. Si dovrà aspettare l’entrata in campo dei Carracci per comprendere la lezione dei “moderni”, di Raffaello, ma soprattutto di Tiziano e del Correggio, e a quel punto il calendario riprende a scorrere, con le magnifiche mostre dedicate all’intera Scuola bolognese, verso cui Longhi fu costretto a rendere un omaggio, nella sua famosa prolusione del ‘34, quado assunse l’insegnamento della cattedra universitaria bolognese, ma un po’ “obtorto collo”. Resta comunque il dovere di colmare un vuoto, di rimediare a quell’anello mancante, nell’intera sequenza della nostra storia dell’arte.