Sono ben lieto di aver visitato, seppure a pochi giorni dalla conclusione, la straordinaria mostra dell’inglese Cerith Wyn Evans (1958), del tutto degna del magnifico spazio milanese Hangar Pirelli Bicocca, credo sicuramente il più ampio in Italia, e forse nel mondo, se parliamo di un volume unico e compatto, mentre certo in estensione planimetrica lo battono per esempio le Corderie dell’Arsenale di cui si vale la Biennale di Venezia. Sappiamo bene che questo blocco mastodontico conserva nel suo ventre di balena le spettacolari torri erette a suo tempo da Anselm Kiefer, ma in genere i curatori di turno hanno saputo affiancarle con opere di uguale articolazione e spettacolarità. Del resto mi è già capitato di parlare di tante altre di quelle imprese eccellenti. Tra cui appunto, ora, l’accendersi dei grovigli di neon con cui l’artista inglese ha animato in toto quell’antro gigantesco, come un gigante che riprende, su scala macroscopica, quel giochetto ben noto consistente nel far vorticare nel buio una sigaretta accesa, che semina una stria di fuoco lungo il suo percorso, capace di resistere per un momento nella nostra pupilla. Qui a dire il vero un analogo gironzolare, ma in grande, delle tracce luminose se ne sta ben fermo grazie al numero incredibile di tubicini al neon che si intrecciano, si sovrappongono, fanno nodo, fornendo uno spettacolo nello stesso tempo fragile, effimero, eppure resistente, nell’occhio dello stupito e affascinato visitatore, Motivo ispiratore, i movimenti di una danza giapponese, ma liberati dall’ingombro dei corpi per risolversi in pura forza cinetica, Per intitolare questa sua prestazione Cerith ruba il titolo da una delle ultime imprese di Duchamp, “… the Illuminating Gas”, ma senza voler contestare per nulla il ruolo di insuperabile apripista di tutte le innovazioni spettante all’artista francese, forse gli mancò sempre un valido senso dello spettacolo, se si eccettua quella selva di corde con cui invase, al suo arrivo negli USA, un’intera stanza per festeggiare da par suo una ricorrenza del Surrealismo. Qui, più che portar via a Duchamp l’asticella di una staffetta, Cerith semmai sembra collegarsi ai neon di Lucio Fontana, che erano stati proprio tra gli animatori di quella spelonca, per di più infittendone il ritmo, la frenesia delle sferzate con cui sciabolare il vuoto, animarlo, renderlo vibrante. Ma oserei anche andare più indietro, evocare lo spirito magno del Tintoretto, il fiero oppositore del genio di Tiziano, quest’ultimo sempre intento a tappare gli spazi stendendovi le sue manteche tonali, l’altro invece a svuotarli, a trafiggerli con aguzzi fasci lineari. Parlando di lui in un mio saggio, mi era avvenuto di dire che il Tintoretto avrebbe fatto miracoli se già allora al posto dei tracciati disegnati avesse potuto disporre di una selva di tubicini al neon.
Il meglio della mostra sta nel corpo centrale dello Hangar, con quel mirabolante accendersi di fasci luminosi, nodi felici, gioiosa e gloriosa selva artificiale degna della nostra età tecnologica. Si deve aggiungere che all’ingresso Cerith ci accoglie con un “introibo” meno spettacolare, con alcune colonne svettanti in rigorosa verticale, e beninteso rese luminescenti, roba da ricordare un suo connazionale, Lawrence d’Arabia e i suo “Sette pilastri della saggezza”. Fuori dall’antro, l’artista ci fornisce, per così dire, come dei programmi di coda, consistenti in una lunga scritta, sempre affidata ai neon, quasi un omaggio a Joseph Kosuth, e qualche tentativo di aggiungere agli splendidi dati visivi quelli sonori, attraverso una serie di tamburelli risonanti. E sì, ci sono pure alcune piante con giochi d’ombra, ma, come già detto, il miglior lussureggiare della vegetazione è reso dalla danza fantastica dei neon all’interno.
Cerith Wyn Evans, “…the illuminating gas”, a cura di Roberta Tenconi e Vicente Todoli, Milano, Pirelli Hangar Bicocca. fino al 23 febbraio.