Letteratura

“Tolo tolo”: non sempre “repetita iuvant”

Dopo aver esaminato “Hammamet”, è logico che ora mi rivolga all’altro film che tiene banco, al centro dell’attenzione degli spettatori, il “Tolo tolo” con cui Checco Zalone sembra aver rinnovato il successo di “Quo vado”. Ma forse l’affollamento con cui è stato accolto il primo apparire di questo film è destinato a calare, mi sembra che dal pubblico esca un verdetto quasi unanime, non ci si diverte come nel film precedente. Il fatto è che Zalone fa uso di una comicità alquanto meccanica, e questa bagna le polveri, rischia di scattare con efficacia via più ridotta. Nei termini del massimo esperto di fenomeni del genere, il nostro Pirandello, Zalone non passa dal comico all’umorismo, non compare in lui un personaggio totale provvisto di un’ampia psicologia, come invece è stato nel caso di un Sordi, e anche di un Manfredi. Abbiamo visto spegnersi via via i fuochi d’artificio che inizialmente accompagnavano il primo apparire di altri “comici”, incapaci di inoltrarsi in seguito in più consistenti personaggi. Si pensi al trio Aldo, Giovanni e Giacomo, ma qualche rischio del genere sovrasta anche Carlo Verdone, e perfino Totò, pur eccellente, ma finché rimaneva appunto nei panni del comico, del burattino, prigioniero della battuta, affidata per intero ai frizzi e lazzi. Si aggiunga, nel caso di quest’ultimo prodotto di Zalone, quanto viene stigmatizzato da un noto proverbio, “scherza coi fanti ma lascia stare i fanti”. Appunto nel fortunato “Quo vado” l’attore scherzava, con taluni nostri difetti, ma in definitiva veniali, come l’inguaribile attaccamento al “posto fisso”, al sessismo, alla nostra inciviltà nel capire i diversi, eccetera. Ma ora ha voluto fare il grande passo, cercare di ricavare effetti comici dalla massima disgrazia dei nostri giorni, il fenomeno migratorio. Devo dire che personalmente non l’ho data buona neppure a Benigni e alla sua pretesa di trasformare in occasione di comicità (“La vita è bella”) il male estremo dello sterminio degli ebrei nei lager. Del resto mi pare che Benigni, prudente nonostante le apparenze, ora si guardi bene dal ritentare le vie di quel gioco assurdo. Invece Zalone crede di potersi aggirare coi suoi riti e miti, di cittadino dei nostri giorni, prigioniero delle nostre consuetudini, dei gadget cui siamo consacrati, tra la totale privazione di questi beni che invece affligge i dannati della terra, ma il contrasto si fa stridente, il riso muore sulle labbra, e anche la vicenda sentimentale appare fragile, di quella brava fanciulla che il buonismo di fondo cerca di preservare da un inevitabile destino, di vendersi ai trafficanti per ottenere vantaggi per sé, per il figlioletto, per lo stesso protagonista. E miracoloso appare pure il lieto fine della vicenda, proprio col ragazzino che per tocco di bacchetta magica alla fine della vicenda trova il padre pronto ad accoglierlo. Stiamo a vedere, se il consenso a questo film nei prossimi giorni vada calando, per l’implacabile funzione che in casi del genere spetta a quello che un tempo si diceva “radio fante”, il passaggio del giudizio da spettatore a spettatore, ben più valido di ogni titolato commento critico.

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