Mentre domenica scorsa la visita alla mostra urbinate su Raffaello era stata “reale”, ho ripreso il vizietto delle incursioni solo virtuali in altri spazi (tanto, sono solo elucubrazioni tra me e me) recandomi nel fiorentino Museo dell’opera del Duomo ad ammirare le tre porte del Battistero, appena uscite da un lungo restauro, mentre all’esterno, come è giusto, ne sono state collocate solo delle copie conformi. Si sa bene che sono opere tra loro in piena diversità. La prima, quella Sud, è dovuta ad Andrea Pisano, vittima di quell’inflazione dell’appellativo derivante dalla città marinara che ha legittimamente imperversato nel Duecento, con due grandi protagonisti come Nicola, padre, e Giovanni, figlio, e accanto allora c’era pure un pittore come Giunta, a ricordarci che in quel momento Pisa batteva la vicina Firenze per volume di traffici, facilitati dalle vie della navigazione, e si sa bene che l’arte va di pari passo con le fortune di ordine economico. Quei due erano magnifici campioni di invenzioni plastiche, mentre, un secolo dopo, l’Andrea che ne replicava l’appellativo apparteneva a quella seconda metà del Trecento che appariva spossata, quasi svuotata, dopo aver partorito, a Firenze, il genio giottesco, e a Siena, in aperto antagonismo, quelli di Simone Martini e dei due Lorenzetti. Andrea Pisano si è trovato a meraviglia entro lo spazio obbligato delle formelle polilobate, collocandovi all’interno le sue figurine ben composte, ordinate, a tre per volta, ritte sulla verticale, quasi intente ad accomodarsi con gesti pudichi le pieghe delle tuniche. Tutto per bene, tutto ben composto, quasi da rasentare già soluzioni di gotico fiorito, o di Rinascimento appena in fasce, ancora timido nei suoi passi. Ma poi vengono le due del Ghiberti, e in proposito, anche questo è risaputo fin dai tempi di scuola, agli inizi del ‘400 viene il concorso tra lui e il Brunelleschi, entrambi ancora sottoposti alla misura gotica della cornice polilobata. Ghiberti la riempie industriosamente, nulla da dire, con volumi che occupano i rispettivi spazi tappandoli, come si potrebbe fare per i vuoti di una serratura introducendovi dei corpi estranei. Il Brunelleschi, invece, vi dà prova di un enorme talento compositivo, con l’asino proteso per il lungo, quasi nel tentativo di forzare le maglie strette dei lobi, come un prigioniero potrebbe cercare di allargare le sbarre che lo imprigionano. E straordinaria è anche la collocazione di Isacco, posto sul dosso dell’animale, piegato come una molla pronta allo scatto, anche in questo caso mossa dall’intento di forzare la prigionia del formato ancora gotico entro cui si pretende di imprigionarlo. Valutando l’ingegnosità della soluzione del Brunelleschi, c’è da rimpiangere che in seguito il suo talento non si sia più espresso nella scultura, avremmo avuto un degno rivale di Donatello. Naturalmente il popolo di Firenze, per quanto avesse la fama di intendersene in questioni di stile, preferì la soluzione più facile fornita dal Ghiberti, e così egli fu incaricato di modellare in tutta calma la Porta Est, detta del Paradiso, ma perché si limitava a cullare il desiderio pubblico di avere una rappresentazione ordinata, di sana vicinanza al verosimile, senza ardimenti, senza voli estrosi e sperimentali. In fondo, era come tradurre in linguaggio plastico le immagini ugualmente gremite ma ben organizzate che frattanto un Gentile da Fabriano, e perfino un Benozzo Gozzoli, andavano elaborando sul filo del tema comodamente folclorico e narrativo della visita dei Re Magi al Divino Fanciullo, un modo insomma di far scendere il Paradiso e di abilitarlo a vivere nel nostro mondo comune.