Nei giorni scorsi ho visitato ben tre mostre dedicate a Canova, a Roma e a Milano, registrando l’enorme piacere di essere cancellato nelle pur enormi biblio che accompagnano i relativi cataloghi. Ma questo fa parte della “damnatio memoriae” cui ormai sono condannato, da vero e proprio “dead man writing”. Il guaio è che a questo modo si cancella pure una interpretazione che tenta di tenere Canova in gioco nell’ambito del “contemporaneo”, o del pre-postmoderno, come preferisco dire, consegnandolo invece mani e piedi legati all’insulsa categoria del bello, che invece è quanto proprio il contemporaneo nega con tutte le sue forze, o recupera, ma solo per vie traverse, di cui proprio Canova è maestro. Delle tre, la più ampia è la mostra romana, come è giusto che sia, in quanto Canova, dal Veneto, pur certo senza troncare i legami con la sua Possagno dove rientrava a ricaricarsi, era divenuto in sostanza cittadino di Roma. Ma ahimé, questa ampia rassegna è proprio posta all’insegna insulsa e controproducente che fa di lui un settatore di una “eterna bellezza”, come suona il titolo dell’esposizione. Oppure sì, il Nostro non disprezzava certo il bello, ma vi arrivava con un complesso giro mentale, che è proprio una delle vie in cui la nostra età recupera l’antico, concependolo come un enorme deposito di stereotipi, da citare sul registro del “tale e quale”, a questo modo anticipando l’operazione del “ready made” di Duchamp, e anche di De Chirico, l’altro grande del nostro tempo che sono solito leggere allo stesso modo. Bisogna però distinguere, quando Canova lavora nel suo studio, magari proprio a Possagno, abbozza col pollice delle statuine frementi, ardenti di un espressionismo avanti lettera, Ma poi affida a una squadra di collaboratori il compito di ingigantirle col pantografo, facendo attenzione a non mettervi palpiti di vita, che non si confanno a questa bellezza da riesumare. Già qui troviamo un indizio della incalzante contemporaneità dello scultore veneto, in quanto al giorno d’oggi nessuno affronta il marmo con lo scalpello, alla maniera di Michelangelo, ma si limita a far riempire degli stampi di materia plastica, di vetroresina o altro. Ci sono però altri tangibili segni di questa contemporaneità canoviana, sempre che si vada a frugare tra le righe, Per esempio, quando disegna, i corpi gli si allungano, fino alla deformazione, anche per questo verso immettendo tracce di espressionismo. E poi c’è l’occulto rifiuto della terza dimensione, in quanto egli partecipa, con Füssli, Blake, Goya, David, a una seppur confusa intuizione che nel nostro mondo, percorso dalla immensa velocità della luce, la profondità deve cedere il posto a uno schiacciamento. E infatti, quando egli ci dà dei gruppi, da Ercole e Lica a Creugante e Demosseno, fa in modo che i protagonisti, nonostante una indubbia volumetria, tendano a incastrarsi l’uno nell’altro. In sostanza, egli è già un praticante della categoria del tutto contemporanea, o postmoderna, della “flatness”. Ce ne dovremo ricordare quando a Milano andremo a misurare la distanza che separa il nostro artista da quella sorta di imitatore e sanguisuga che fu Thorvaldsen,
Ma vado di fretta, per non dare a questo pezzo la lunghezza di un saggio, avendolo già fatto altrove. Veniamo a Milano, Galleria d’arte moderna di via Palestro, dove troviamo un corpo superbo di ritratti, che senza dubbio sono “volti ideali”, come dice il titolo della rassegna, soprattutto per la preponderante schiera di immagini muliebri, dove senza dubbio Canova è prigioniero di stereotipi, ma li rinnova appiccicando a questi volti conformi delle chiome superbamente arricciate, come grovigli di serpenti. Oppure le stringe tra bende, come fossero già creature defunte. Qui, sia detto tra parentesi, si consuma il più grave delitto nei miei confronti, dato che un curatore co-firmatario, assieme alla corretta padrona da casa Zatti, tale Omar Cucciniello, a me del tutto sconosciuto, come io lo sono per lui, imbocca la via della “citazione”, ma ne dà merito a tutti i critici dei nostri giorni, tacendo il mio nome, mentre evoca una mostra da me condotta, ”La ripetizione differente”, nel 1974, dove fra l’altro c’era proprio un’opera di Giulio Paolini, riportata anche in questo catalogo, che ne dimostrava l’eredità da Canova.
Ma veniamo all’ultimo atto, in sé meritorio, perché senza dubbio è opportuno che si vada a stabilire un raffronto tra il maestro di Possagno e il successivo imitatore e competitore danese Thorvaldsen, Qui purtroppo è già un crimine aver dato la regia dell’esposizione a Fernando Mazzocca, munendolo anche di una sorta di “licenza di uccidere”, Infatti Mazzocca, mi è capitato più volte di dirlo per sue esibizioni in quella sede e altrove, è il “killer” di tutto il nostro migliore Ottocento, di cui capisce solo quel momento centrale e in definitiva nocivo, che fu rappresentato da Francesco Hayez, traditore dell’insegnamento canoviano a favore di un realismo, ma leccato, oleografico, da cui tutto il nostro migliore secondo Ottocento dovette affrancarsi a fatica. Ma veniamo al tema, al confronto tra i due scultori, dove si scorge, seppure per minimi segni, che il Danese non comprese nulla di quei sottili accorgimenti in cui risiede la grandezza canoviana. In lui sparisce il delizioso ritmo binario che porta le figure a far eco e specchio l’una dell’altra. E sparisce soprattutto la “flatness”, nei bassorilievi, che in lui si fanno altorilievi, bozze gonfie e sporgenti, invece di avere la levità epidermica di quelli del maestro e rivale. Ma soprattutto l’indizio migliore, a favore della mia linea interpretativa, sta in alcun versioni della Ebe, che Canova dota davvero di inserti “ready made”, di ampolle prese ”tali e quali” dal reale, ricche di una doratura che vuole contrastare col biancore del marmo. Ovviamente Thorvaldsen non capisce tanta finezza, tanto ardimento, immobilizza le immagini nell’omogeneità di un’unica materia, compatta e azzerante.
Canova, eterna bellezza, a cura di G. Pavanello. Roma, Palazzo Braschi, cat. Silvana editoriale: I volti ideali, a cura di P. Zatti e O. Cucciniello. Milano, Galleria d’arte moderna, cat. Electa; C. e Thorvaldsen, a cura di S. Grandesso e F. Mazzocca, Milano, Gallerie d’Italia, cat Skira. Tutte le mostre chiudono il 15 marzo.