Ricevo e commento ben volentieri “Il treno dei bambini” di Viola Ardone, di cui non so nulla, ma pare che, già fatto conoscere, questo romanzo abbia riportato consistenti riconoscimenti sulla stampa estera. Per valermi di formule a me solite, posso dire che si colloca tra una vecchia e una nuova “napoletudine”. Rispetto alla prima di queste versioni, ci sta la materia di cui la vicenda è costituita, una Napoli dell’immediato secondo dopoguerra, vittima del pauperismo, della fame, di famiglie prive della presenza-assistenza di un genitore, con figli allo sbando, costretti a vivere di ripieghi, di piccole malversazioni, eccetera. Insomma, basta pensare alla Napoli consacrata dai capolavori cinematografici di “Paisà “ e “Sciuscia”. Ma la Ardone recupera un fatto singolare di cui personalmente non avevo nozione, non c’è però ragione di dubitare della sua veridicità. Sembra che il PCI locale, consapevole di tanta miseria, invitasse i compagni di un Nord più agiato, come quello residente, poniamo, a Bologna o a Moena, ad accogliere questa infanzia e adolescenza denutrite, bisognose di tutto. La cosa in sé mi sembra singolare, dato che, seppure a Nord non si soffriva la fame, il brodo però non vi era particolarmente grasso, e sappiamo bene tutti che quando ci fu un’emigrazione massiccia dal Sud verso una Torino industrializzata, negli appartamenti compariva la fatidica scritta “non si affitta ai meridionali”. Ma, ripeto, diamo pure per accertata la veridicità storica del fenomeno. Merito della Ardone sta non certo nel descriverlo dall’alto di una sapienza autoriale, ma nel mettersi nei panni di questi giovani soggetti dell’avventura, facendoli esprimere in prima persona, con una lingua mista di dialettismi, di ingenuità, di dubbi e timori. Oggi sulla “Lettura” del Corriere della sera compare una recensione di Francesco Piccolo che lamenta la difficoltà imposta da questa lingua particolare, ma al contrario io vi trovo il merito più sostanzioso di questa modalità di racconto, a differenza di tanta prosa dei nostri, fin troppo scorrevole e neutra. Invece catturano l’interesse i timori di questi piccoli protagonisti, che non sanno bene che cosa succederà a loro nei paesi di destinazione, terrorizzati da storie di maltrattamenti, addirittura con la paura di essere deportati in Russia, e di venire sottoposti a torture, come sarebbe il vedersi mozzare le mani. Insomma, vogliamo dire che questi candidi protagonisti ragionano, si esprimono, come temo avvenisse ai loro coetanei nei convogli degli ebrei deportati e avviati verso il campi di sterminio? Inoltre c’è senza dubbio la nostalgia dei focolari abbandonati, anche se tanto miseri e sprovvisti di conforti, e di genitori, soprattutto madri, che la stretta del bisogno allontanava da ogni manifestazione di affetto. E poi ci sono le ansie alle stazioni d’arrivo, come se i piccoli sopraggiungenti dal triste passato fossero avviati a processi di adozione. In che famiglia capiteranno, quale accoglienza riceveranno? La Ardone, nel trattare questa materia, si nuove con indubbia maestria, estesa ad angolo giro, dicendoci delle sorprese di questi orfanelli, o quasi, per esempio quando incontrano i cibi grassi di cui l’Emilia va fiera, come la mortadella. E poi ci sono i conflitti quando si entra in seno alle nuove famiglie, con l’obbligo di stabilire rapporti di giusta convivenza con genitori adottivi, e i loro figli, da trattare come ritrovati fratelli. Il tutto filtra attraverso un campione delegato a farsi carico di sorprese, impacci, meraviglie, titubanze, resistenze, che si chiama Amerigo Speranza. Siamo in sostanza nell’ambito di una napoletudine tradizionale, ma rinnovata proprio dall’essere affidata alla fresca testimonianza, linguistica e psicologica, di soggetti minorenni. C’è anche una fase di rientro, ovvero termina la permanenza al Nord, i piccoli diseredati ritornano a Napoli e alle sue miserie, col che la Ardone sembra proprio ricalcare una mossa che non ho accolto troppo bene, quella che si incontra nel romanzo di Donatella Di Pietrantonio, “L’arminuta”. Ma là il rientro è di un personaggio singolo che in definitiva non vuole più ritrovare la vecchia pelle. Qui invece i reduci dai paradisi settentrionali rentrano forse fin tropo bene nel panorama disastrato di sempre. Tanto che, in definitiva, la scrittrice ha ben compreso il rischio di segnare il passo, di dover replicare i suoi pur validi accorgimenti stilistici. Allora, ha optato per un forte stacco, quasi volesse entrare nella “nuova napoletudine”. Ma mentre questa, di cui sono esponenti i Ferrandino, i Lanzetta, è attuata da soggetti che entrano nei ritmi odierni di vita, cercando di supplire con la delinquenza alle solite privazioni che li aduggiano, la Ardone tenta di effettuare il balzo con ricorso a una specie di happy end, peccando forse di inverosimiglianza. E’ mai possibile che da quel remoto destino di disagio profondo i nostri eroi, Speranza, e compagni, riescano a sollevarsi, a divenire agiati professionisti, lui addirittura musicista, violinista di valore? Il passo è troppo lungo, inoltre la nostra autrice si spoglia proprio delle virtù con cui aveva accompagnato il volo tarpato delle sue creature nella stagione del pauperismo. E tuttavia, c’è almeno un aspetto che ridà valore a questo rientro in gloria di Amerigo, consistente nell’omaggio che è tenutoo a rendere alla madre, rimasta chiusa nella sua povertà e solitudine, cui egli stesso non ha potuto o voluto recare alcun aiuto a tempo opportuno. E ancora ricadiamo in una napoletudine, ma in quella di forte spessore drammatico di cui ai loro tempi erano stati capaci il Carlo Bernari dei ”Tre operai” e l’Elsa Morante di “Menzogna e sortilegio”.
Viola Ardone, Il treno dei bambini, Einaudi stile libero, pp. 253, euro 17,50.