Letteratura

Agata Bazzi: “La luce è là”, diffusa e lattiginosa

Ho letto con qualche piacere “La luce è là”, di Agata Bazzi, scrittrice di cui non so nulla, come del resto mi avviene sempre più spesso in queste mie pagine del tutto private, che mi vedono quasi nelle vesti un “tastevin”, cui si bendano gli occhi, ovvero gli si consente di non conoscere tanti dettagli biografici sull’autore che gli viene presentato, lasciandolo al gusto della lettura in diretta. Fra l’altro, non so bene se siamo di fronte a un romanzo o alla ricostruzione di vicende familiari relative a un ampio arco storico, che va dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra del Novecento. L’autrice si muove con la grazia di un gatto, o diciamo anche con la modestia, con la verecondia di chi sa bene di saggiare un terreno occupato da tanti mostri sacri. Torreggiano infatti sullo sfondo i Buddenbroock di Thomas Mann, o perché no, il “Mulino del Po” di Bacchelli, con una medesima sequela di generazioni che si succedono le une alle altre, anche se l’angolo di mondo e di società non potrebbero essere più diversi, dalle rudi vicende di una comunità rurale nel romanzo di Bacchelli a quelle di una borghesia ascendente, nelle pagine della Bazzi. E magari c’è pure la possibilità di un confronto col Pennacchi che ricostruisce i destini della sua gente in fuga dalla povertà del Veneto verso l’inferno delle paludi pontine. Ma il tutto, sia ben chiaro, come sottoposto a un lavaggio, a uno sbiancamento che attenua e stilizza tutte le figure e le vicende, proprio per consentire un trattamento sempre all’insegna del decoro e delle buone maniere. Come sono quelle del protagonista principale, un Albert Ahrens che riesce nel miracolo di trasferire le sue doti di bravo tedesco, dalla condotta irreprensibile, nel clima incandescente di una Palermo dominata dai Florio, senza fare una grinza, senza perdere di compostezza, di “aplomb”, ma dimostrandosi anche capace di praticare con disinvoltura le migliori doti affaristiche che si addicono al costume borghese, e alle sue possibilità di consentire un’ascesa regolare, continua. Anche perché al suo fianco c’è una moglie ancor più dotata di lui nel coltivare al meglio le virtù della “arzdaura”, se lo vogliamo dire con vocabolo emiliano, ma bravissima nell’applicarle al mutato sfondo sociale della sicilitudine, Brava anche nello sfornare al marito una nidiata di figli, il che permette a questo romanzo-biografia familiare di diramarsi per tante file, dato che ognuno dei figli o figlie realizza il suo bravo o malo matrimonio, a sua volta fecondo di altra prole. E dunque il racconto si snoda come un polipo, invia i suoi tentacoli in tante direzioni, ma con un punto d’attrazione, una calamita fatale, indicata dal titolo stesso, “La luce è là”, che è il nome assegnato alla maestosa villa, sulle pendici del Monte Pellegrino, in cui si concentrano tutte le ambizioni del “pater familias”, perfetto nido per le fortune della numerosa figliolanza, che deve radunarsi in quel luogo eletto, affiancato anche dalla sede degli affari della famiglia. Naturalmente, come vogliono i grandi modelli citati sopra, anche questa lunga storia si divide in momenti di ascesa e in altri di calo, rappresentati questi dal sopraggiungere del regime fascista che si porta dietro le vergognose persecuzioni razziali. I coniugi Ahrens, infatti, sono ebrei, quasi per rispettare lo stereotipo delle virtù indomite sul lavoro di coloro che appartengono a quella etnia e religione. Ma la nostra Bazzi, anche nel rispetto del copione delle persecuzioni razziali, e poi delle furie naziste, e poi della “liberazione”, vista anch’essa in controluce, mantiene il suo passo leggero, si muove con grazia e riserbo felino tra gli ostacoli ingombranti, porta avanti la sua barca industriosa sempre nel segno dei mezzi toni, di un apprezzabile under-statement.
Agata Bazzi, La luce è là, Mondadori, pp. 365, euro 19.

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