Temo di non essermi mai occupato di Miquel Barcelò (1957), che pure è forse l’artista spagnolo più valido e forte emerso negli ultimi decenni. Una buona occasione ora mi è offerta dal Museo Internazionale della Ceramica (MIC) di Faenza che ne presenta una mostra di prodotti in terracotta e simili. Il tratto rilevante di Barcelò è che sembra collegarsi alla migliore stagione spagnola del dopoguerra, almeno secondo le mie conoscenze, quella dell’Informale, dei vari Canogar, Millares, Saura. Non di Antoni Tàpies, dato che Barcelò non ne condivide certo quel sublime e intrigante giocare a nascondino, del celare in qualche tomba o anfratto dei tesori di vita, o di morte, sbarrandone poi l’accesso con lapidi su cui graffire qualche tracciato enigmatico. L’arte del lontano emulo si svolge tutta all’aperto, con piena evidenza, di naufragi che travolgono esili imbarcazioni gremite di esistenze minacciate di sommersione, o di pesche miracolose tirate a rive con reti colme di un bottino, i cui frutti però se ne stanno a marcire, una volta riportati all’aria. Oppure si tratta di bestioni immani caduti prigionieri e avvolti nelle spire di qualche maglia che non riescono a spezzare, e così via, con un linguaggio che risulta sempre aperto, provocante, aggressivo. Qualcosa che fa di lui un corrispondente dei tedeschi Neuen Wilden, e anche dei nostri Transavanguardisti, niente in comune invece con i Nuovi-nuovi, che amano l’eleganza e la raffinata stilizzazione, mentre lui preferisce le tinte forti, la violenza espressionista, il colore spesso sanguigno. Tutto ciò beninteso si traduce anche nella sua attività ceramica, in cui gli si deve riconoscere in primo luogo il saggio proponimento di tenersi ben lontano dalla eccessiva e deludente produzione ceramica del genio nazionale, di Picasso, uno degli aspetti per i quali vale la formula di cui io mi valgo proprio per contrassegnare gli ultimi decenni di produzione picassiana, “le roi s’amuse”, compiacendosi di vivere di rendita, di colpi di fioretto, di rapide incisioni inferte alle pance di anfore, vasi, piatti, ben attento a non mordere a fondo, a rimanere in superficie. Invece in tutta questa produzione in terracotta e simili il suo lontano discendente “fa sul serio”, colpisce, squarcia, o se anche simula di recuperare dal mare o da scavi qualche reperto archeologico, fa di tutto perché questo si spezzi, rechi i segni di qualche violenza subita, come di un neonato estratto violentemente col forcipe, con poca cautela e prudenza per una sua sopravvivenza. Oppure, invece di presentare quei reperti uno o alla volta, quasi racchiudendoli in preziose teche protettive, Barcelò se ne impadronisce per costruire con loro dei muri grossolani, come facevano gli antichi abitanti di terre incolte per liberarle dai massi ingombranti, accumulandoli a secco, o magari ricavandone delle formazioni nuragiche. Lungi dal ricercare la grazia, l’eleganza, quei rozzi e barbari mattoni da costruzione appaiono bucherellati, così come li ha ridotti un’usura esercitata su di loro dalle intemperie meteorologiche, o da un prolungata immersione nelle acque. Del resto, quei pertugi che ne solcano e forano le superfici sembrano fornire dei provvidi punti per inserivi le dita, le mani, e così poterli sllevare, per andare a costituire dei muri grevi e gravi, che peraltro, a differenza di quelli di Tàpies, non celano alcun segreto, ma si risolvono per intero nel brutale e arido spettacolo che impongono.
Miquel Barcelò. Faenza, Museo internazionale della ceramica, fino al 6 ottobre.