Anna Coliva è un eccellente funzionario dei nostri beni culturali, da tempo ottimamente preposta alla direzione della romana Galleria Borghese, da cui la si era voluta rimuovere non so bene per quale pretesto. Anzi, il suo operato sta a dimostrare quanto fatua sia stata la riforma imposta dell’ex-ministro Franceschini che è andato a pescare tra stranieri le persone da mettere alla testa dei nostri musei, quando, semmai, basterebbe promuovere le eccellenze che già abbiamo, e allontanare invece i mediocri. Fra l’altro, ho lodato la mostra che di recente proprio la Coliva ha dedicato alle sculture di Picasso, così come ora mi appresto a fare per l’attuale dedicata a Lucio Fontana. Però le lodi che non le ho certo lesinato, quando ancora scrivevo su quotidiani importanti, sono sempre state accompagnate da un dubbio, se valga la pena di dispiegare tanta ingegnosità nella sede che pure le spetta per diritto, una Galleria Borghese già piena come un uovo di capolavori, per cui i nuovi ospiti vi devono essere ficcati a forza negli interstizi, e i visitatori comuni neanche se ne accorgono, o li avvistano come strane, incongrue presenze. Non vale neppure il motivo del confronto tra l’antico e il contemporaneo, dato che di fatto, se gli ospiti sono della stazza di un Picasso o di un Fontana, esso si risolve in uno scontro irrelato.
Ma veniamo all’esposizione attuale, che ha il pregio di non accarezzare per il verso convenzionale l’immagine ufficiale di Fontana, quale promossa da quello che si può davvero chiamare col brutto termine di “modernismo”, una specie di gara a chi fa i gesti più estremi, per cui, del “gran lombardo”, si lodano i buchi e i tagli, a danno di altri aspetti ugualmente o forse ancor più validi. Invece già il titolo di questa rassegna, in cui l’artista è ricondotto al binomio “Terra e oro”, allarga utilmente il campo. I famosi tagli sono stati senza dubbio un gesto forte, ma solo simbolico, del resto nella mia non breve carriera di curatore di mostre li ho sempre preferiti quando Fontana li infieriva su consistenti brani proprio di “terra”, ovvero di terracotta, magari rifusu in bronzo, come per esempio avviene nelle sue “Nature”, dove lo squarcio prende un sapore di furia tellurica, di un Prometeo, o di un fanciullino pascoliano, che vuole andare a vedere che cosa c’è dentro, nella materia, nel globo terrestre. Caso mai, il gesto crudo del forare lo spazio può essere ingentilito se viene inferto su una superficie dorata, decisa a ostentare una sua autonoma ricchezza, a compenso della violenza di quanto è costretta a subire. Ma meglio ancora quando Fontana si ricorda di essere un geniale modellatore di terrecotte, di ceramiche, cui imprime un furore degno della migliore tradizione barocca, come aveva ben capito Enrico Crispolti, nel dedicare un risoluto omaggio appunto alla sua “carriera barocca”. Qui spuntano dalle pareti i grovigli sanguinanti delle crocefissioni, una produzione che Fontana svolgeva soprattutto negli anni prebellici, cui poi ha imposto una pausa, preferendo darsi alle sue stoccate di ardito spadaccino spaziale. Ma lo spazio, lo sa agitare altrettanto bene attraverso i grumi, i nodi arruffati gonfi di furore, affidati alle sue “terre”. Magari manca all’appello un terzo aspetto fondamentale, e forse vincente, quando cioè l’artista conduceva le sue esplorazioni spaziali non attraverso un geto perentorio ma irrelato come il taglio, bensì attraverso i flessuosi ed elastici “lazos” realizzati con i tubi al neon, che non si limitavano a fare il solletico allo spazio, ma andavano a sommuoverlo dalle radici, ad animarlo organicamente.
Lucio Fontana, Terra e oro, a cura di Anna Coliva. Roma, Galleria Borghese, fino al 28 luglio.