L’ultima volta che mi ero occupato di Pedro Almodovar era stato a proposito di “Julieta”, un film che avevo trovato inutilmente aggrovigliato e con passaggi inverosimili, un prodotto quasi da eliminare dalla sua gloriosa filmografia. Ora invece si è riscattato con questo suo “Dolor y gloria”, forse anche per la decisione semplificatrice di abbandonarsi totalmente alla chiave detta oggi della “auofiction”, o della confessione autobiografica, per dirla con un termine più usuale. Almeno così pare, e del resto una chiave del genere è stata adottata da tutti i critici intervenuti. Con una tipica struttura a chiasmo, intervallando cioè delle immagini di un autore giunto alla sua maturità e vividi flash back di ritorno agli anni dell’infanzia e prima adolescenza. Nel ruolo dell’eroe stanco recita un Antonio Banderas che a seguito di questa sua prestazione si è meritato a Cannes la palma di miglior interprete, credo più in memoria di tante sue anteriori, superbe prestazioni, mentre in questa il regista gli ha riservato un compito ingrato, forse appunto, se accettiamo l’interpretazione in chiave autobiografica, mosso da un intento masochista di dare di se stesso, e del suo analogo, un’immagine fallimentare, o meglio, di un sopravvissuto che sa civettare abilmente con i vari titoli della sua gloria passata, mentre al presente si compiace di una grandiosa rovina, con abbandono ai piaceri della droga, dell’alcol, e a mille ritrosie e mossette furbe, tra il volere e non volere. Per fortuna che questo spettacolo ambiguo e sconcertante è intervallato dai passi indietro, quando compare un ragazzino vispo, pieno di vita, che sa fare virtù dei guai di un’esistenza misera, per colpa di un padre abulico e inerte, ma compensato da una madre piena di affetto, e di tenere cure per la sua creatura, ruolo affidato a una bravissima Penelope Cruz. I due sono costretti ad andare a vivere, nei pressi di Valencia, addirittura in un sotterraneo, da cui però, alzando gli occhi al cielo, e filtrando lo sguardo attraverso una griglia a maglie rade, si ha una magnifica visione del firmamento, e davvero si sente un coro di angeli che intonano la canzone di Donaggio, “lassù sento gli angeli che cantano dolcemente”. Questa è la chiave del tutto intonata ad amore, estasi, confidenza nelle proprie doti del protagonista, Salvador Mallo, nella sua incarnazione di partenza. Infatti questo ragazzino, vispo e intelligente, se la cava bene con l’alfabeto, la scrittura, la lettura, tanto da poterle insegnare a un nullatenente come lui, un imbianchino che si incarica, in cambio degli insegnamenti ricevuti, di dipingere i muri dell’antro miserabile in cui madre e figlio vivono. Tra l’altro, siccome terminato il suo lavoro l’operaio si denuda per lavarsi in una tinozza, il ragazzino, o diciamo pure, alla maniera di Joyce, l’artista da giovane, ha una visione estatica del nudo maschile, da cui l’omosessualità che poi sarà un dato costante della sua vita ulteriore. Questo Almodovar in gran forma non si trattiene dal visitare i classici che lo hanno preceduto sulla medesima strada, da Joyce fino al nostro Tornatore, col suo fanciullo estasiato dalle proiezioni che gli offre il “Nuovo cinema Paradiso”, e nel voltarsi indietro dell’eroe maturo a contemplare il se stesso da piccolo c’è pure un omaggio allo svedese Bergman e al suo “Posto delle fragole”, e si percepisce pure un’aura che ha qualcosa a che fare col nostro Pupi Avati. Naturalmente la madre, Penelope Cruz, per seguire l’amato figlio nella sua crescita deve passare la mano a una attrice più matura, anche lei bravissima, capace di condurre dei dialoghi dell’anima con l’uomo celebre ormai in disarmo, richiamandolo alle sue doti migliori e dandogli un preciso mandato di come trattare le sue spoglie, quando tra poco lei se ne andrà. Il tutto irrorato dalla celestiale musica di Donaggio, che ci accompagna “dolcemente”, dal principio alla fine.