Che dire allora di questa 58ma Biennale d’arte di Venezia, e soprattutto del suo direttore, l’inglese Ralph Rugoff? Credo che si debbano mescolare giudizi positivi e negativi, questi secondi in numero decisamente superiore, a cominciare dal titolo stesso, “Possiate vivere in tempi interessanti”, che come minimo è un truismo, o una battuta di ironia, spero consapevole. Ci mancherebbe altro che si convocassero un’ottantina di artisti, con relative ingenti spese, solo nella speranza che in tutto ciò si possa trovare un qualcosa di interessante. Suppongo che anche Rugoff abbia sentito parlare della fortunata sindrome attuale riportabile alla formula del “glocalismo”, cioè di una comunanza di tecniche oggi finalmente raggiunta da tutti gli artisti del mondo, di cui però ognuno di loro fa un uso molto libero, e soprattutto rivolto a ritrovare le radici della propria tradizione. Ne viene un entusiasmante polistilismo, ricco di tante linee di tendenza. Un quadro così ampio e animato viene senza dubbio raccolto nella presente selezione, il che appunto sta tra i meriti di Rugoff, si aggiunga anche la registrazione che le donne artiste sono ormai in numero uguale, o addirittura superiore, alla fin qui schiacciante presenza maschile. Questa volta le artiste sono 42, su 79 presenze totali. Ma qui terminano le benemerenze da riconoscere al selezionatore, che in tanta abbondanza di aspetti avrebbe dovuto sentire il dovere di prendere per mano il visitatore e di presentargli un quadro leggibile, accostando fatti e fenomeni simili, Ma i “curators” si rifiutano a un compito del genere, che invece appare prioritario a un critico militante come lo scrivente, che per giunta ha fatto per tutta la sua carriera professione di fenomenologo degli stili. Col che si tocca la colpa principale dell’attuale gestione, che il presidente Baratta avrebbe dovuto impedire, la cancellazione di ogni tratto distintivo tra i due spazi di base, il Padiglione centrale ai Giardini e la lunga coda alle Corderie dell’Arsenale. Quando la Biennale era ben condotta, nel primo spazio si poneva qualche figura dominante, o fenomeno stilistico di punta, mentre si riservava il magnifico spazio delle Corderie a presenze più giovani e sperimentali. Sarò sempre un nostalgico dell’”Aperto” che fu tante volte la porta d’ingresso di giovani di talento destinati poi a crescere. Nel ’90, entrato tra i selezionatore di questo settore, ebbi il piacere di invitarvi addirittura il grande Jeff Koons, allora alle sue prime comparse. Purtroppo i “curators” hanno cancellato, dal 2.000 in poi, una simile distinzione, omogeneizzando i due spazi, ovvero lasciandoli alla confusione, a un susseguirsi di proposte, alcune delle quali già di grande notorietà, altre rispondenti al compito di individuare le nuove promesse. Una cancellazione di compiti che Rugoff ha aggravato con una decisione infausta, ovvero, ognuna di queste 79 partecipazioni è stata raddoppiata, con una comparsa in un luogo e una seconda nell’altro, il che senza dubbio ha permesso agli artisti di manifestare una loro legittima varietà di stili, ma confondendo completamente le idee al povero visitatore. Io stesso, che forse non sono proprio uno sprovveduto, ho stentato a riconoscere uno stesso protagonista nelle due comparse di cui ha goduto, Ne do subito un esempio, relativo a una artista cipriota, Haris Epaminonda, della scuderia di un eccellente gallerista nostrano, Massimo Minini, che ai Giardini presenta un lungo, aggraziato video, mentre alle Corderie sciorina una serie di oggettini raffinati, pieni di aura. Ma soprattutto, come tutti i “curators”, anche Rugoff ha disprezzato il mestiere di raccogliere le fila, di dirci quali tendenze sono oggi sulla piazza. Prima regola, spezzare i cambi, fare la grande marmellata assortita, ciascuno scelga a modo suo. Per esempio, ci si poteva porre il quesito se e in che modo torni in scena la vecchia signora, la pittura, di cui qua e là, ma dispersi ai quattro venti, ci sono validi testimoni, come il keniota Michael Armitage o la statunitense Nicole Eisenmann, e altri ancora, fino addirittura a una ripresa di modalità informali preseenti nell’etiope Mehretu. Forse meno facile sarebbe stato raggruppare la dilagante presenza di combinazioni oggettuali, tridimensionali, che funzionano un po’ come punti di aggregazione, e ce ne sono delle molto convincenti, come gli accumuli dell’iraniano Baghramian o del coreano Lee Bull, o del cinese Liu Wei. Belli anche i corpi scorticati e contorti della svizzera Carol Bove, o il lungo serpente del nigeriano Otobongo Nkanga, in effetti insignito di un premio. In questa stessa categoria sta anche lo statunitense Arthur Jafa, vincitore del Leon d’oro, coi suoi copertoni preziosamente istoriati. Magari secondo un normale “fair play” cui si ricorre nelle manifestazioni pubbliche appare di cattivo gusti aver assegnato agli USA sia il Leon d’oro per una prestazione individuale sia quello alla carriera, andato all’eclettico Jimmie Durham. Fra l’altro, a proposito dell’opportunità di piazzare nel Padiglione centrale una specie di corte d’onore, perché non aprire proprio con lui, e aggiungere nel riconoscimento l’anziana tedesca Rosemarie Trockel, invece di confonderla a contatto con quale giovane alle prime armi? Lo stesso si dica per un indiano ormai consacrato come Shilpa Gupta, o per l’argentino Tomàs Saraceno. E perfino una delle appena due apparizioni nostrane, Lara Favaretto, avrebbe meritato di vedere le sue membra sparse, ma sempre efficaci, raccolte in una antologica imponente. Rimanendo nell’ambito dell’oggettistica sono da segnalare almeno altre due presenze eccellenti, delle australiane Christine e Margaret Wertheim, tessitrici di merletti impastati di orrore, sprizzanti un senso tragico; e le acquasantiere elaborate dalla rumena Andrea Ursuta, ricavate da ossa del corpo umano.
Poi beninteso c’è l’invasione dei video, sempre più lunghi, laboriosi, in aperta competizione con prodotti filmici o televisivi, posti in stanze sempre più buie, e non si vede perché non debba intervenire un minimo criterio di protezione, rompendo quell’oscurità con qualche lucina, per evirare si andare a sedersi sulle ginocchia di visitatori entrati prima di noi. In questo settore che, lo ammetto, sarebbe impossibile raccogliere in uno spazio unico, si distinguono però gli esercizi da esperimento biologico di Ian Cheng, che ci fa assistere in diretta al formarsi di bacilli, come fossero coralli di nuova specie. E soprattutto un sensazionalismo apprezzabile sta nelle “macchine” della coppia cinese Sun Yuan e Peng Yu, con due lavori molto diversi, ai Giardini rilanciano l’idea di una pittura fatta a macchina con un pesante ingranaggio che traccia al suolo macchie informi. Nelle Corderie invece fanno fischiare nello spazio le frustate di un cavo sottile, sibilante. Poi, volendo, si poteva raccogliere una sezione dedicata alla fotografia, in cui talvolta persiste il bianco e nero che in Zanele Muholi si fa luttuoso, con acconciature pesanti, pronte per cerimonie funebri o per riti satanici. Mentre l’indiano Gauri Gill fotografa, sì, ma un gruppo etnico che ha nascosto i suoi lineamenti sotto maschere rituali. E tante altre sono le presenze senza dubbio intriganti, fascinose, o disgustose, certo è che il pubblico deve fare da sé, non riceve alcun suggerimento o guida o proposta interpretativa da parte del “curator”, compiaciuto di sé e del grande caos che ci propone, con l’unica preoccupazione di non aver sbagliato le mosse, di aver infilato nella calza i nomi giusti, che i colleghi della sua casta approverebbero.
58ma Biennale di Venezia, fino al 24 novembre.