Ho davanti a me l’appena uscito romanzo di Chiara Gamberale, “L’isola dell’abbandono”, che però non reca consistenti novità rispetto a un precedente “Adesso” (2015) che avevo ritenuto degno di un mio pollice, non troppo positivo, affidato all’unica uscita cartacea che al momento mi resta, sull’”Immaginazione”, mentre affido questa replica alla rubrica minima del mio blog. Forse il dato più curioso e interessante è la spiegazione che ci viene data dell’espressione “lasciare in asso”, che si riferirebbe all’abbandono patito da Arianna, abbandonata sull’isola di Naxos dall’ingrato Teseo, su cui già l’Ariosto aveva dedicato versi memorabili. Anche in questo caso la protagonista, che, come tutto il mondo “bene” in cui si aggira l’umanità frequentata dalla Gamberale trascorre una vacanza estiva a Naxos, o in qualche isola limitrofa, viene appunto “abbandonata in asso” da un amante del momento, un focoso, ma anche crudele Francesco, che forse proprio per la proverbiale ragione che la donna si innamora in misura particolare di chi la tratta più brutalmente, non viene mai dimenticato, nonostante i vari abbandoni da lui perpetrati. Del resto, tutta la narrativa della Gamberale è dedicata a un libero e disinvolto “incontrarsi e dirsi addio”, ovvero all’etica della famiglia quanto mai aperta, corrispondente anche a una specie di “ronde de l’amour”, o di un “changez la dame”, però precisando subito che in un simile ambito di comportamenti disinvolti, “á la page”, in genere la discriminazione maschio-femmina, e l’inferiorità di quest’ultima, è superata, e i due sessi, magari anche con sempre più frequente inclusione pure del terzo sesso, combattono ad armi pari. E dunque l’abbandonata si consola ben presto con un successivo amante, salvo poi a permettersi di “piantare in asso” anche quest’ultimo, rifugiandosi tra le braccia dell’immancabile psicoanalista, pronto poi a divenire il nuovo amante in carica. Il tutto condotto in toni fatui, disimpegnati, tentando di evitare il versamento di lacrime e sangue, anzi, adottando un ritmo leggero, paragonabile a un “rave”, come è detto a un certo punto. Infatti, visto che la protagonista guadagna il suo pane come disegnatrice di libri per l’infanzia, il tutto si potrebbe tradurre in una graphic novel, o in un cartone animato, di quelli che sa comporre il grande artista sudafricano Kentridge. Pare infatti di vedere sfilare i diversi personaggi in parata, magari accompagnati da rumori, suoni, ritmi, passi di danza. Trovo una curiosa vicinanza, proprio in questo ritmo di periodici mutamenti dei partner affettivi, in un romanzo steso da Silvana Grasso e da me recensito su queste colonne, “La domenica vestivi di rosso”, anch’esso dominato da un ritmo indiavolato di “changez l’homme”. Solo che a vantaggio della Grasso ci sta la capacità di condire questi giri di walzer con buone dosi di crudeltà, di dramma, di tragedia, intanto facendo della protagonista non un campione di bell’aspetto e di un confortevole tenore di vita, bensì la portatrice di un handicap fin dalla nascita, il che ne fa una “diversa”, mentre la protagonista della Gamberale è troppo simile a una media statistica di figure usualmente circolanti. Inoltre i partner immessi nella trama dalla Grasso sono a loro volta capaci di perfidie, di sadismi che invece, nelle pagine della Gamberale, trovano una eco più flebile, semmai concentrata nel solo “macho” Stefano, mentre gli altri, al pari della protagonista, sono anch’essi troppo banali, slavati, privi di nerbo. Di fronte a prodotti così “scorri via”, di ordinaria amministrazione, c’è da chiedersi se non sia meglio cercare qualche soluzione più robusta, ricca di qualche scatto di violenza, nella pur dilagante invasione dei “gialli”.
Chiara Gamberale, L’isola dell’abbandono, Feltrinelli, pp. 216, euro 16,50.