La Galleria Fumagalli, nel suo passaggio da Bergamo a Milano, sta facendo un ottimo lavoro che mi ha indotto a parlare su questo blog per ben tre volte delle mostre che vi ha portato. In quella sede ho avuto il piacere di rivedere la coppia Anne e Patrick Poirier, che già erano stati un pilastro quando presso lo Studio Marconi, nel 1974, avevo in definitiva aperto il ciclo del gusto “rétro” organizzandovi “La ripetizione differente.” Quindi sempre là ho potuto ammirare i neon abilmente intrecciati nello spazio da Keith Sonnier, il collega e rivale di Bruce Nauman negli USA, a torto messo in sordina a vantaggio dell’altro. Ora poi, nella mostra dedicata all’olandese Marinus Boezem, rivedo un artista che ben cinquant’anni fa avevo ospitato a Bologna, alla Galleria Nuova Loggia, in coppia col suo connazionale Ger Van Elk, cosa di cui essi forse si sono del tutto dimenticati. Il merito di quella precoce segnalazione non fu del tutto mio, bensì ispirato da Piero Gilardi, con cui avevo stabilito uno stretto rapporto, ma in una fase anteriore del suo lavoro, e anche dei fatti apparsi sul quadrante della storia. Avevo accolto Gilardi come efficace campione della Pop Art, grazie ai suoi tappeti-natura, che costituirono anche un episodio rilevante della Pop nostrana, in stretta simbiosi con quella statunitense, tanto che lui, assieme a Pistoletto, era l’unica accettato nelle rassegne ufficiali di quel clima. E proprio alla Nuova Loggia lo avevo portato in mostra, quando ancora giurava su di lui Gian Enzo Sperone. Ma eravamo alle soglie del ’68 e stava scattando uno dei più vistosi ribaltoni che si siano avuti nelle vicende recenti, quello che dalle forme fin troppo chiuse di Gilardi e Pistoletto, cui per l’ambiente torinese era anche il caso di aggiungere Aldo Mondino e Ugo Nespolo, portava all’”aperto” dell’Arte povera e delle altre proposte similari fiorite in tutto il mondo occidentale. E Sperone fu pronto a porsi alla testa di questa svolta, che aveva in Germano Celant il diligente sacerdote. Ma nella prima fase l’Arte povera non si era ancora districata da un certo residuo minimalismo, di forme dure e impacciate. Gilardi in quel momento attuò un salto della quaglia, ovvero, per conto suo non riuscì a saltar fuori da un pur felice mimetismo delle sembianze naturali, ma lo stesso successo che gli consentiva di viaggiare negli USA lo aveva portato a capire anzi tempo che là il pendolo si stava invertendo di nuovo, auspice di tale mutamento lo stesso capofila del Minimalismo, Bob Morris, passato a sperimentare l’Anti-form, cioè non più metalli rigidi, bensì feltri cascanti, in quello che io stesso definii una sorta di Informale ritornante, ma in versione fredda o tecnologica. Gilardi si comportò allora alla maniera del Virgilio dantesco, fu cioè colui che “reca il lume dietro e sé non giova”, cioè lui stesso rimase impermeabile a quelle nuove mosse, però andava in giro munito di poderosi album con la documentazione di chi, in tutto l’Occidente, stava conducendo quella svolta. Tra questi, appunto la coppia Boezem-Van Elk, e dunque io fui ben lieto di accettare il suo consiglio di esporli, trasmettendolo al direttore della Loggia, anche se questi era alquanto incerto su quel passo e non seppe dargli un degno seguito. Ora torno a incontrare Boezem, e lo vedo procedere sicuro sulla via già allora imboccata, da autentico interprete della Land Art, tra i pochi protagonisti che ne seppe dare l’Europa, accanto al connazionale Jan Dibbets. Tutti ricordano di quest’ultimo il capolavoro, quella spiaggia su cui l’artista aveva apportato dei solchi lasciando che si incaricasse la marea montante di cancellarli. Ebbene, a tanta distanza di tempo trovo una straordinaria corrispondenza nell’opera di base realizzata da Boezem appunto nella Galleria Fumagalli, sul cui pavimento ha rifatto l’impianto della basilica di S. Francesco ad Assisi, valendosi di semi, destinati a essere spazzati via, anche se in questo caso non da un’onda montante, bensì da uno sciame di uccelli che si può ben supporre che siano pronti ad avventarsi su quel prezioso ben di Dio loro offerto, mentre dei rami sporgenti dalle pareti gli offrono dei sostegni ideali per soffermarsi a guardare la preda che li attende. Il tutto è una perfetta replica della ben nota immagine giottesca dedicata al Santo che predica appunto al mondo dei volatili. Anche andando a indagare a ritroso nei tanti anni che mi separano dal primo incontro con Boezem trovo pur sempre in lui un produttore di installazioni in perfetta sintonia con i capolavori della Land Art. In tante occasioni egli ha eretto palizzate, “alzati” in verticale, siepi di vegetali, nel che si può intravedere una specie di sfida o di concorrenza nei confronti di Christo e delle sue “Running Fences”, magari pur sempre aggiungendo a questi esercizi spaziali un pizzico di respiro museale che manca totalmente nell’opera del bulgaro-francese-statunitense.
Marinus Boezem, Bird’s Eye View, Milano, Galleria Fumagalli, fino al 5 aprile.