Arte

Thomas Struth tra ordine e disordine

Temo di essermi già espresso altre volte in termini non troppo positivi a favore del MAST, voluto da Isabella Seragnoli, senza dubbio straordinaria benefattrice nel contesto bolognese, ed è pure positiva in partenza l’iniziativa di edificare un centro dedicato all’arte contemporanea, oltretutto in zona periferica, contraddicendo la stupida pretesa di portare tutto nel centro della città. Purtroppo l’edificio è stato progettato in stile “moderno”, nel senso specifico proprio del Movimento moderno, cioè in ossequio alle rigide norme del Bauhaus di Gropius. Inoltre la volontà di ospitarvi manifestazioni d’arte rivolte a fare il pelo al mondo dell’industria non ha certo ammorbidito quell’assunzione originaria. Ciò non toglie che, pur in un ambiente troppo freddo e specchiante, dove si rischia ad ogni passo di andare a sbattere contro quale parete vitrea trasparente, o di incespicare in gradini elevati appena a un palmo dal suolo ma comunque insidiosi, talvolta, pur nel rispetto del tema, si possano vedere cose valide. Come è ora, con una bella mostra dedicata a Thomas Struth (1954), forse il più influente nel gruppuscolo di artisti tedeschi allievi di Bernd e Hilla Becher, di cui hanno accolto in pieno l’insegnamento di fare a meno della pittura a vantaggio della fotografia, eseguita in modi il più possibile rigidi, senza nulla concedere ad effetti “mossi”. I suoi compagni di avventura si chiamano Thomas Ruff, Andreas Gurski, Candida Hofer, ma fra tutti è proprio Struth il più fermo e impavido, mentre gli altri, forse anche per sottrarsi al suo abbraccio, tentano qualche giro di valzer. E dunque, freddo il tema, un inoltrarsi nel mondo della tecnologia più avanzata, in una selva di tubi, tubicini, apparecchi robotici, quasi il presagio di un futuro che viene annunciato come imminente e inesorabile. E allora? Ma ecco compiersi il miracolo. Struth parte all’inizio come perfetto adepto al servizio di un mondo del genere, almeno con una mano, ma è come se con l’altra scompigliasse quella trama fin troppo ordinata, introducendo indizi, fattori, tracce di inquietudine, o diciamolo pure di caos, di disordine. Come se con la mano sinistra l’artista agisse da sabotatore, staccando le spine, curando che i cavi si imbroglino tra loro, fino addirittura a prendere come modello il nemico, l’aborrita natura, con il suo rigoglio di forme spontanee che non seguono schemi rettilinei ma che se ne vanno per traverso. Insomma, quello specchio delle nostre brame fin troppo irreggimentato e a senso unico si mette invece a trasmettere immagini sconvolte, arruffate. Come detto, il caos, il disordine entrano, seppure in punta di piedi, in quel mondo che pretenderebbe di essere fin troppo pettinato, conforme a canoni geometrici. In fondo, se diamo un’occhiata al titolo della mostra, vi compare proprio l’antagonista, il nemico che la tecnologia vorrebbe dominare, cancellare, vi si parla proprio di “Nature”. L’antagonismo rispetto ad essa, chissà perché, viene affidato al termine di “Politics”, ma di questi non c’è segno, in un universo semmai troppo in ordine, a meno che proprio l’attentato messo in atto dall’artista contro il mondo dell’artificio non equivalga a un gesto di insurrezione “politica”.
Thomas Struth, Nature and Politics, a cura di Urs Stahel. Bologna, MAST, fino al 22 aprile.

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