Oggi compio di nuovo una visita virtuale che si spinge fino alla Galleria Sabauda di Torino, dove si può ammirare la mostra “Ad acqua. Vedute e paesaggi di Bagetti. Tra realtà e invenzione”. Il prendere in esame l’artista in questione, che si chiamava Giuseppe Pietro (1764-1831), mi consente di riaprire il dossier già qui redatto a proposito della mostra sul Romanticismo in Italia che ancora si può vedere nelle milanesi Gallerie d’Italia, una esposizione di cui non ho certo parlato in termini positivi. Infatti degli almeno due significati principali inerenti all’etichetta del romanticismo la mostra milanese considera solo l’aspetto contenutistico, di una pittura e scultura che certo si rifacevano indietro nel tempo, a vicende medievali, magari anche piene di rumore e furia, ma le trattavano secondo tutti i canoni della tradizione occidentale, ovvero realismo, verosimiglianza, effetti atmosferici e cromatici corretti, quasi in anticipo di quanto, un secolo abbondante dopo, sarebbe stato possibile fare col cinemascope. Tutto ciò purtroppo, presso di noi, senza la forza e freschezza di impasti che furono proprie dei due romantici, secondo una simile accezione, attivi in Francia, Géricault e Delacroix, mentre da noi l’alfiere incontrastato fu il bolso, pesante Hayez, con le sue scene oleografie, laccate, lucide, specchianti. Quale, invece, fu un “altro” romanticismo? Quello che, magari, indietreggiava anch’esso nel tempo, ma per non andarvi a pescare temi storici e per trattarli in modi convenzionali, bensì scavalcando tutta la sapienza dell’età rinascimentale e barocca, avviando invece, avanti lettera, una enorme operazione di preraffaellitismo, reintroducendo forme, soluzioni di carattere primitivista, o diciamo pure naif. A cominciare dalla tecnica usata, che per esempio induceva il nostro Bagetti a evitare il colore a olio, troppo grasso e torbido, preferendogli le tinte “ad acqua”, come dice il titolo della mostra, cioè i leggeri, immateriali acquerelli, a loro volta attenti a distendersi nei recinti ben calibrati da un disegno minuzioso, quasi di ritrovato sapore infantilista. Porrebbe sembrare una contraddizione che questo gusto pulito e semplificatore si rivelasse particolarmente adatto a farsi cronista di battaglie, ma queste venivano risolte come se i belligeranti fossero schiere di soldatini da allineare con cura, proprio come bambini che giocano alla guerra. In questo, a dieci anni di distanza, Bagetti non faceva che ripetere quanto Andrea Appiani, nato un decennio prima di lui, aveva composto dipingendo un enorme fregio a Milano, Sala delle Cariatidi, per narrare le imprese napoleoniche, appunto facendo sfilare le truppe entro una fascia lunga e stretta, come fosse già una “strip”, una “bande dessinée” dei nostri giorni. Purtroppo un bombardamento del 1944 ha distrutto quell’enorme fregio, mentre per fortuna gli acquerelli di Bagetti ci sono ancora in buon numero. Quella semplificazione, quello schiacciamento delle forme, quasi a correre in avanti e anticipare l’avvento dell’”á plat” di Gauguin e compagni, implicava anche la riduzione della profondità spaziale, cioè l’abolizione della sacra prospettiva alla maniera di Alberti e di Leonardo, i due capisaldi che erano stati alla base di tutto l’enorme ciclo post-raffaellesco, contro cui ora si voleva reagire facendo macchine indietro. Persa la dimensione della profondità, bisognava sfruttare l’orizzontalità, affidandosi magari a quelle curve che i geologi chiamano sinclinali, come del resto sapeva fare molto bene uno dei fondatori di quel gusto anticipatore di tutte le regole del contemporaneo, Goya, e come avrebbe fatto un altro felice interprete di quella stagione, William Turner, anche lui con vedute oscillanti, investite da un beccheggio come nei tanti vascelli da lui dipinti. Non è che il ricorso alla verticale fosse escluso, e proprio il nostro Bagetti sapeva inserirlo, per esempio se chiamato a rappresentare quel miracoloso tempio svettante all’improvviso su un colle alle porte di Torino, la misteriosa, affascinante “Sacra di S. Michele”, ma più spesso la visione in lui preferisce appiattirsi, dondolare per traverso, schierare le docili file dei soldatini, o di alberelli, se si tratta di paesaggi. Tutto, pur di non aderire ai modi troppo verosimili, troppo para-fotografici o pre-cinematografici dei conformisti compilatori di quadri storici, troppo abili, troppo ligi alla lezione impartita da Raffaello e seguaci.
Giuseppe Pietro Bagetti, “Ad acqua. Vedute e paesaggi”, a cura di Giorgio Careddu. Torino, Galleria Sabauda, fino al 21 marzo.