Ricevo l’ultimo prodotto della fertile officina di Tullio Avoledo, “Furland”, e non mi esimo certo dal commentarlo, ritrovandovi quella presenza di temi di fondo a garanzia di una impronta personale di cui vado sempre alla ricerca in qualsivoglia mia indagine, condotta in arte o in letteratura. L’impulso, originale e originario, del nostro Avoledo, è presto detto: c’è in lui una pronta aderenza al suo territorio di elezione, un Friuli amato nei colori atmosferici, nel sapore di terra, in tante altre particolarità, in nome di un localismo rapace, aderente, da cui però la dimensione nomadica ed errabonda che è in lui sente di dover fuggire via per imprese alquanto folli e temerarie. Ne viene una partita, come in un gioco di equilibrio dinamico: riuscirà, il richiamo alla terra, dare concretezza, ancoraggio alle avventure pur temerarie di un cittadino in fuga dal paese avito? Ne viene un dosaggio variabile, o se si vuole una specie di cocktail di cui il nostro barman riesce ogni volta a variare gli ingredienti. Il risultato dà gusti diversi, qualche volta gradevoli, altri, sbilanciati, decisamente improbabili. Comunque, così agendo, Avoledo si pone in un arengo che oggi mi pare essere il più invitante, coltivato da altri, a cominciare da Enrico Brizzi, con le sue fughe in avanti, a proiettare i dati della storia passata verso un futuro immaginario. Si è pure cimentato in questo spazio Ermanno Cavazzoni, riempiendo la narrazione con una famiglia innumerevole di robot, posti a ricalcare le orme dei cavalieri erranti del buon tempo antico. In questo caso il Friuli è subito presente fin dal titolo, ma anche sottoposto a una pronta metamorfosi che ne fa un territorio straniero, un “land”, magari sfruttando anche la presenza di un fürer nel toponimo, come se un Hitler redivivo si fosse impadronito di quella contrada, assimilandola appunto a uno stato degno del Reich nazista, con tanto di dittatore, cui peraltro viene dato un nome maccheronico, Libero Volpatti, che del resto, appena evocato, sparisce quasi subito alla vista, non si sa che fine abbia fatto. Ma l’idea centrale di questo romanzo sta nella possibilità che oggi sia lecito andare su e giù nei gradini del tempo e della storia con l’ausilio delle realtà virtuali, capaci di ricostruire, a uso di una folla di Onorevoli Visitatori, beninteso paganti, tutta una serie di parchi tematici, con comparse, figuranti, attori posticci pronti a indossare i panni previsti dalle varie pagine del copione. Preferiti, beninteso, i crimini proprio del regime nazista, con truci rifacimenti di scene di esecuzione, dove però talvolta, sforando dalla dimensione virtuale di questi rifacimenti, ci scappa davvero il morto. Ma in genere ogni episodio di eventi bellici consente efficaci ritorni d’immagine, con evocazioni di strumenti di guerra che ricompaiono, come sottratti a un museo delle armi, comprensivo di quanto è già andato in pensione, ma anche di armi ipotetiche che mai sono state sperimentate in campo aperto. Scorrendo queste pagine, troviamo la migliore definizione di quanto vi si offre, definito come “un parco divertimenti ipertrofico”, capace di fornire, a un pubblico in visita, tante Attrazioni, dove ogni scena è accompagnata da una adatta e confacente colonna sonora, che a sua volta viene definita nei termini di un “lego linguistico”. Ecco la parola giusta, a siglare un’intera operazione, un genere letterario: il nostro Avoledo si impegna ogni volta a comporre un suo “lego” con tanti pezzulli del passato, del presente, del futuro. Sta a noi assaporare come dicevo, la risultante, il cocktail ingegnoso che ne risulta, e stabilirne il grado di accettabilità.
Tullio Avoledo, Furland, Chiare Lettere, pp.225, euro 16,50.