Il PAC (Padiglione Arte Contemporanea) di Milano, sotto l’abile guida di Diego Sileo, sta effettuando una perlustrazione degli artisti nati negli anni ’60 e ormai costituenti l’ossatura centrale della nostra arte. Tempo fa in questa serie era apparso Luca Vitone, e già si annuncia un suo stretto compagno di via, Cesare Viel, ma ora è soprattutto il turno di Eva Marisaldi (1966), con una mostra di straordinaria bellezza, quasi da darle la palma della migliore riuscita per l’intera annata trascorsa. Anche se a tutta prima un visitatore potrebbe rimanere disorientato per la varietà di stimoli, occasioni, soluzioni che la mostra presenta, tanto che in catalogo si è ritenuto opportuno collocare un’intervista in cui Emanuela De Cecco sollecita l’artista a risolvere i misteri, a dirci quali siano state le varie occasioni che l’hanno portate a eseguire lavori in apparenza così disparati. Ma credo che sia meglio affidarsi all’istinto, senza risalire alle cause, cogliere il senso di ferrea coerenza che regge tutte queste prove. Trova, tu visitatore, la formula conduttrice, il filo d’Arianna, la chiave per entrare in questo universo segreto, e potrai procedere tranquillo, confortato, rallegrato dalle tante conferme che ti verranno. Quale, questa unitaria parola d’ordine? Eva è ossessionata dal dover aderire a una superficie, a una linea d’orizzonte. Questa la regola d’oro che regge ogni sua impresa, anche se talora non manca di infrangerla con balzi in verticale, su è giù. Si sa che l’artista giapponese Murakami ha lanciato la formula della “super-flatness”, ma un talismano del genere si addice ben di più alla nostra Eva, anche perché il suo problema non è certo quello di schiacciare un mondo di immagini. Per una immediata presentazione di questa sua tendenza istintiva a ridurre al piano, ogni volta che parlo di lei, come mi è capitato più volte, non manco mai di ricordare una delle sue proposte più avanzate e incredibili, realizzate in una delle sedi della galleria più sperimentale di Bologna, Neon, dove aveva riempito un sottoscala con una melma di non so quale materia, del tutto simile a una distesa di sabbie mobili, con tanto di pericolo in agguato, nel caso che un malaugurato visitatore fosse caduto in quella fossa micidiale. Qui ovviamente le soluzioni mutano radicalmente, qualche volta si valgono di confortevoli lungometraggi, uno dei quali fa il verso all’intera popolazione di atleti che hanno partecipato alle Olimpiadi di Londra del 2012, a loro volta collegate a quelle rimaste mitiche della Berlino hitleriana, 1938, immortalate dal famoso documentario della Riefensthal. Ma naturalmente interviene la regola principale dell’universo Marisaldi, ovvero gli atleti, quale che sia la specialità in cui si impegnano, risultano contratti, ridotti alle proporzioni di massi, di dolmen, come pedine di un gioco pesante, tutti vittime di un inflessibile modulo di trasformazione. Se si va al piano di sopra del PAC, ci si può sedere e ammirare un altro cortometraggio che a prima vista non ha nulla da spartire con quello visto al pianterreno. E’ la visione trionfale di una strada che si apre davanti a noi, trascinando come un fiume in piena greggi, carrette, automobili, procedenti su fette di asfalto o di terreno sterrato, ottenute, le une e le altre, con la tecnica di un gioioso cartoon infantile. Lì accanto, c’è un diverso lavoro che sembrerebbe il tracciato di cerchi quasi di astrazione geometrica, sennonché si scopre che sono le orbite disegnate dai ganci di chiusura di camion, che una volta aperti disegnano proprio quelle circonferenze. Ma affrontiamo pure il titolo stesso della mostra, che ci promette un “Trasporto eccezionale”. Ebbene, è quello che al giorno d’oggi viene assicurato da garzoni di pronta consegna, da fattorini delle poste, e dunque sarebbero immagini di forte rilievo, ma Eva applica su di loro il suo implacabile schiacciamento, ne fa delle tavolette fittili, quasi emerse da qualche scavo archeologico. Anche le pareti talvolta sono investite, ma da occupazioni lievi, impalpabili, come sarebbero i segni di palline andate a sbattere contro di esse in qualche esercizio sportivo di una scolaresca. Oppure con i foglietti post-it, così docili, così alla mano, Eva compone un mosaico dalle mille gradazioni, quasi a sfida di certi statunitensi, Robert Ryman, Agnes Martin, impegnati, ma in modi troppo rigodi e regolari, in operazioni del genere. Non mancano però le fuoriuscite in verticale, con una gradualità al solito molto ampia, dalle evasioni minime, come quella di un paio di calzoni che diventano come dei pungoli, al loro termine, per procedere al solito compito di scalfire una superficie. Oppure, con immersione decisa da speleologa o entomologa, la Marisaldi scava nel terreno per portare alla luce il labirinto costruito da formiche industriose, fino a determinare un incredibile gruppo scultoreo. Mille altre sono le trovate, il più delle volte ottenute a poco prezzo, con mezzi pronti e immediati. Abbiamo addirittura un teatrino che ci mostra il ballo di due posate. Rimaniamo incantati a fissare le mosse agili e sciolte dei due danzatori inanimati, poco importa, a dire il vero, essere informati che alla base di quel mini-spettacolo ci sta un riferimento a Gramsci. Ma forse la più radicale prova di questa ossessione dell’orizzontalità la abbiamo al primo piano, dove, avvalendosi di un azzurro intenso che indica la presenza dell’acqua, Eva insegue i flussi di un fiume africano nel suo scorrere tra deserti e gole verse lo sfocio in un lago. Qualcosa del genere ce lo aveva già dato in una mostra di appena un anno fa alla bolognese Galleria de’ Foscherari, dove pure era già comparsa un’altra opera del tutto indicativa, una sorta di passerella, di ponte provvisorio, senza dubbio fragile e tremolante, con cui, almeno in immaginazione, sarebbe possibile attraversare tutto quel gremito panorama di esili, o invece profonde, quasi invisibili, o invece decisamente marcate, titillazioni, sollecitazioni del primo motore di tutta questa creazione, la superficie, da animare in mille modi.
Rva Marisaldi, Trasporto eccezionale, a cura di Diego Sileo. Milano, PAC, fino al 3 febbraio.