Il “Corriere della sera” di ieri, come del resto ogni altro quotidiano, ha riferito dei fitti applausi con cui è stata salutata la presenza del Presidente della Repubblica Mattarella alla prima della Scala. Io invece, se fossi stato presente, lo avrei sonoramente fischiato, come logica conseguenza di quanto ho detto su queste private e solitarie mie colonne, senza che alcun altro interprete di me più titolato mi abbia ripreso (in entrami i sensi della parola, confermando quanto da me detto, o sdegnosamente contestandolo). Io rinnovo l’accusa contro di lui di aver consegnato il Paese ai due gaglioffi che ci stanno portando alla rovina, un Di Maio, che almeno a sua conforto aveva un 32% di consenso elettorale, e un Salvini, che allora era fermo al 17%, ma che ben presto ha capito che poteva fare tesoro della sua posizione ricattando Di Maio, affacciato letteralmente sull’abisso, in quanto, se non andava al governo, sarebbe stato fagocitato dai compagni di partito. Come già detto da me varie volte, Mattarella ha agito per pura ignavia, per paura di dover affrontare i rischi e imbarazzi di compiere l’unico atto doveroso, di mandarci a nuove elezioni. Egli si è comportato da quell’essere vacuo, insignificante, con occhio spento, come Crozza ha magistralmente messo in evidenza mettendo a confronto una sua foto a quattro anni con una di oggi, mostrando la continuità di un carattere sfuggente e incerto. Non capisco neppure le ragioni di un consenso confermato di fronte alle ulteriori fughe dalla responsabilità del nostro Presidente, che invece di rimandare indietro le leggi che hanno destabilizzato i nostri risparmi ha proceduto a firmarle, a scanso di guai, limitandosi ad accompagnarle appena con un inutile fervorino di difesa di certi principi costituzionali, mentre sapeva bene che, dando il potere a quei due, tali principi sarebbero stati sistematicamente violati. L’unico apprezzamento che si può rivolgere al governo gialloverde, è di aver chiaramente preannunciato le sue mosse, e dunque Mattarella non si poteva illudere, sapeva bene che, a non fermarli, ci portava in casa la peste.
Ma c’è dell’altro in quegli applausi frenetici con cui è stato salutato l’Attila verdiano, del resto cosa consueta, il melodramma, e in particolare le sue messe in scena alla Scala, sono l’unica manifestazione artistica che riscuote omaggi sproporzionati, come non avviene per qualsivoglia proiezione cinematografica o commedia teatrale, e tanto meno a favore di un autore se si presenta qualche suo libro. Quanto alle mostre d’arte, là per fortuna non c’è il costume di applaudire. Invece alla Scala questo si fa, forse perché è un evento tranquillizzante, una conferma di benessere delle classi al potere che si “congratulano”, nell’accezione etimologica della parola, per quell’atto di sopravvivenza e di conferma di un solido “status quo”. Che poi lo spettacolo in sé meriti davvero quell’omaggio così retorico, è cosa tutta da dimostrare. Io, come credo qualsiasi altro cultore della contemporaneità su tutti i fronti della ricerca, mi sento del tutto refrattario all’opera dell’Ottocento, che per me vale fino a Mozart e Rossini, e caso mai ricomincia con Puccini. Qualche volta ci provo, a misurare le mie reazioni di fronte al melodramma, per verificare se col tempo ho raggiunto un qualche grado di accettazione. Venerdì scorso, trovandomi disoccupato in una camera d’albergo, ho tentato di assistere all’esecuzione dell’Attila, ma proprio non ce l’ho fatta, a cominciare dal libretto, gonfio di retorica, di un vocabolario già del tutto vecchio e sorpassato anche per quegli anni, spiriti di Manzoni e di Leopardi dove siete? Chi si sintonizza sul loro linguaggio non può che respingere quella lingua bolsa, che avrebbe bisogno di traduzione ai margini. Non me ne intendo affatto di musica, ma mi sembra che quel continuo “papazum” non sia particolarmente apprezzabile, oppure mi viene fatto di procedere a un accostamento alla mostra del Romanticismo che ho visitato, e stroncato nel settore di questo blog dedicato all’arte. C’è una corrispondenza tra Verdi e Hayez, magari, diciamo pure, a favore del primo, non dubito che in opere posteriori abbia dimostrato quell’eccellenza che usualmente gli si riconosce, ma nell’Attila mi pare che corrisponda davvero a quei dipinti accademici, oleografici che i nostri falsi romantici dedicavano a vicende medievali. Magari gli interpreti, la regia, le scene ci hanno messo del buono, per rendere accettabile un vecchio prodotto, così come uno chef tenta di ridare vita a vecchi cibi conservati nel freezer.