Credo che sia ormai ora di mutare la quarta lettera dell’acronimo MUDEC, Museo delle culture del Comune di Milano, nella “A” di arte, facendone, come doveva essere in origine, prima di un infausto dirottamento verso scopi più larghi, il tanto atteso e necessario Museo milanese per l’arte contemporanea. Lo attesta la mostra eccellente di Paul Klee che ancora vi si può ammirare, unico maestro del Novecento a non aver subito quel calo di qualità dopo il 1930 di cui invece sono stati vittime tanti suoi colleghi. E prima di lui avevamo potuto ammirare mostre ugualmente eccellenti di Jean-Michel Basquiat e di Frida Kahlo. Si aggiunga che in questo momento ci sta pure un’esposizione dell’artista oggi più alla ribalta, quel Bansky che si avvolge nel mistero biografico. Chi è davvero, dove vive, qual è la sua età? E’ invece facile rispondere a un quesito in definitiva più pertinente, nel caso di un artista: quale è il filone cui lo si deve ascrivere? Non c’è dubbio, egli appartiene a pieno titolo alla serie degli illustratori satirici, con alle spalle una illustre progenie, che magari, se non prima, può partire tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, includendovi i disegnatori della francese “Assiette au beurre” e i nostri che, sul tipo di Galantara, stendevano le vignette satiriche dell’”Avanti!” della Domenica, fino a giungere agli attuali illustratori che gareggiano sulle pagine dei maggiori quotidiani, Forattini, Gianelli, Altan, Staino, eccetera. Arma comune di tutta la categoria, quasi segno distintivo, valersi soprattutto del bianco e nero, con sagome stagliate su fondo bianco, o viceversa, e rare applicazioni del colore. Bansky, in più, si vale di una possibilità concessa dai nostri tempi, l’ingrandimento, fino a coprire intere pareti, sfruttando la facoltà accordata dalla street art. Ma forse proprio nell’affrontare questo ingrandimento, quasi affidato al pantografo, il discorso di Bansky si fa incerto, perde di mordente. Meglio che le sue sferzanti scenette si trasferiscano, seppure su pareti esterne e visibili, quasi come delle decalcomanie, estratte dalla sede primaria di nascita sul foglio, quindi diligentemente applicate. Beninteso la base, la ragion d’essere di questo linguaggio non può che essere un intento di denuncia, di contestazione, di attacco a qualsivoglia sistema dominante. Si tratta di una componente contenutistica in confronto alla quale l’aspetto stilistico viene quasi a rimorchio, né del resto Bansky se ne preoccupa molto, la sua attenzione e intenzione primaria vanno alla punta, alla provocazione, seppure affidate all’effetto prima di tutto visivo. Un primo obiettivo polemico è ovviamente la guerra, intesa come un malanno sempre da condannare, da investire e travolgere col discredito della satira. E così, i combattenti diventano come i giocatori di bocce che invece di lanciare le biglie inviano nello spazio delle bombe a mano già innescate. O minacciosi carri armati avanzano innalzandolo i pasticcini del breakfast del mattino. Alla Regina Vittoria viene imposto un volto di scimmia, la Madonna diventa addirittura un mito avvelenato, una “Toxic Mary”, e così via. Se per un verso il fine è di denigrare, di seppellire sotto uno sghignazzo, sotto un’amara risata i pretesi valori positivi e retorici, per un altro si dovrà innalzare ciò che usualmente viene considerato vile e basso, per esempio l’intera esistenza, carriera, sopravvivenza della denigrata famiglia dei topi, dimostrando che in definitiva essi sono come noi, anzi, meglio di noi, e che la persecuzione condotta contro di loro è del tutto pretestuosa e ingiustificata. E così via, senza dubbio con buono spirito inventivo, con acuminato gusto della satira, ma forse esercitata con modalità alquanto seriose e rigide, senza troppo controcanto di specie ironica. Con due conseguenze, che proprio per la loro portata di chiaro impegno ideologico interventi di questo tipo non possono essere installati su pareti pubbliche o private per via abusiva, occorre chiedere autorizzazione, ottenere un consenso da parte di chi è costretto a subire immagini del genere. In secondo luogo, senza dubbio questa popolazione di anatemi, imprecazioni, denunce risponde a buoni propositi di specie didattica, forse è salutare che, seppure per via consensuale, questi “memento” vengano inseriti, fatti conoscere “urbi et orbi”. Ma certo, proprio per la loro validità di ordine ideologico, non hanno troppo valore aggiunto di portata estetica, ovvero non contribuiscono a un compito ornamentale-decorativo, che invece dovrebbe essere il fine primario di quella che oggi viene definita street art.
A Visual Protest. The Art of Bansky, a cura di Gianni Mercurio. Milano, Mudec, fino al 14 marzo. Cat. 24ore cultura.