Arte

Morbelli e l’eccellente poema della vecchiaia

Questa mostra che la veneziana Ca’ Pesaro dedica ad alcuni dipinti di Angelo Morbelli, rivolti ai temi da lui più sentiti e risolti, viene a confermare quanto da tempo è nella consapevolezza dei più avveduti storici dell’arte contemporanea italiana: il suo nome è ormai da aggiungere stabilmente come quarto “grande” al canone dei migliori rappresentanti di una sindrome felice, costituita da Simbolismo-Divisionismo, nel cui nome è davvero iniziata la nostra contemporaneità. Gli altri tre, dalla reputazione ormai ben consolidata, sono Gaetano Previati, Giovanni Segantini e Giuseppe Pellizza, cui si deve aggiungere il ruolo particolare svolto da Vittore Grubicy. Infatti, ad assicurare la validità di quella nostra formazione, sta il fatto che non furono affatto i docili e attenti seguaci della lezione d’oltralpe proveniente dal pur più quotato e legittimo inventore della tecnica “divisa”, il francese Georges Seurat. Forse bisogna pensare a una via più mediata, proveniente da certi esperimenti condotti nelle province nordiche, tra Belgio e Olanda, anche perché c’’è un dato sostanziale a fare la differenza, tra i nostri e i francesi, una ben diversa vocazione tematica. I nostri compirono una scelta prioritaria, diciamolo pure, a favore dei contenuti: temi storici, revivalisti, sociali, rispetto ai quali la tecnica divisionista veniva quasi a rimorchio, come una ciliegina aggiunta a una torta già per conto suo robusta e consistente. Nulla di ciò vale nel caso di Seurat, o di Signac e deli altri che ne seguirono le orme al di là delle Alpi, i quali risultavano condizionati soprattutto dalla precedente stagione impressionista, non per nulla sul loro conto valse anche l’etichetta di Neo-Impressionismo, e dunque, felicità di vedute all’esterno, o di interni borghesi, non attristati dalle angustie dell’esistenza. Invece i nostri accanto alla sperimentazione cromatica si misurarono soprattutto con i contenuti di ordine sociale. Morbelli per esempio, nei dipinti assai indicativi di questa mostra, svolge “Il poema della vecchiaia”, andando a piazzare idealmente il suo cavalletto all’interno del Pio Albergo Trivulzio, un ricovero per anziani, vecchi e vecchiette in triste attesa della morte. Segantini, magari, spostava la sua attenzione a valle, sui misteri della procreazione, umana e animale, ma pronto anche lui a farsi carico dei “novissimi”, dei misteri della morte incombente o di possibili consolazioni mistiche. Previati non disdegnava di misurarsi sul tema storico, ma “pettinandolo” con quei suoi lunghi e flessuosi filamenti che poi sarebbero stati così utili anche al sopravveniente Boccioni. Agiva su tutti loro una precisa eredità dalla stagione del verismo, di specie piemontese-lombarda, il che è valido soprattutto nel caso proprio di Morbelli, e poi del ben più giovane Pellizza. Al punto che riesce difficile individuare le tracce in cui l’impostazione di un crudo, responsabile realismo si alleggerisce attraverso un trattamento più sottile, avvolgendosi in un pulviscolo fine, quasi a fornire un compenso, un riscatto per poveri esseri che altrimenti sarebbero abbandonati ai mali di una vecchiaia implacabile. Questi anziani miserabili se ne stanno assorti, a meditare, a rimuginare lontani ricordi, su panche e sedie di rozza fattura, ma un raggio di luce li illumina, distende chiazze più serene, come un fuoco fatuo, ahimé, troppo rapido a spegnersi. Le donne spariscono sotto certi cappucci che danno loro un’aria misteriosa, di streghe, o di anticipatrici delle parche, di sacerdotesse di riti funebri, ma le riscattano i bianchi panni a cui stanno lavorando. E poi, come già detto, il fine pulviscolo di cui risultano cosparse è il segno di una possibile redenzione, di una nobilitazione capace di raggiungerle al di là del carattere misero e frusto degli abiti quotidiani che vestono e che ne rivelano lo stato di povertà. A quello stesso modo quando poi Pellizza stenderà il supremo capolavoro del Quarto stato gratificherà le sagome dei contadini procedenti in fitta schiera con una ugualmente sottile trama di effetti luminosi, quasi a dimostrare che il sole dell’avvenire non è solo un ideale di specie virtuale, lontano, da coltivarsi solo in sogno, ma un effetto reale, sensibile, presente, capace di irrorare i poveri panni applicando loro un “valore aggiunto”. Se in questa mostra molto utilmente l’artista ci viene presentato nel concentrarsi solo su temi di interni gravidi di miseria e disgrazie, ma irrorati anche di lieviti di riscatto, in altri casi è pure capace di uscire all’aperto e di andare a registrare le imprese di quegli stessi umili, di quegli esponenti del quarto strato quando si chinano a lavorare nelle risaie, nei fossati colmi d’acqua, in modo che il poema dei “vinti”, nell’accezione verghiana, verista del termine si completi in ogni sua parte e capitolo, ma sempre con la possibilità di quel controcanto concesso dall’intervento del fine trattamento pulviscolare.
Angelo Morbelli, Il poema della vecchiaia, a cura di Giovanna Ginex, Venezia, Ca’ Pesaro, fino al 6 gennaio.

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