Arte

Matisse non è tutto arabesco

Comincio questa cronaca con un necessario encomio indirizzato alle Scuderie del Quirnale, il luogo espositivo che in breve tempo si è conquistato un’eccellenza tra tutte le sedi del nostro Paese. Si è affacciata di recente la richiesta di aprire il Quirinale a visite pubbliche, il che del resto è sempre avvenuto, ma non si speri di trovare in quel Palazzo fin troppo esteso molti capolavori d’arte davvero gratificanti, le visite dovrebbero servire più che altro a illustrare le funzioni di alto bordo che in quelle sale si sono tenute in passato e continuano tuttora a tenersi. Per una remunerativa contemplazione di opere d’arte, molto meglio che i visitatori attraversino la piazza e si rechino appunto in un luogo nato come struttura di servizio, le Scuderie, ma ora trasformate in magnifica galleria, dove in genere appaiono i capolavori del nostro passato, ma con qualche tuffo in capitoli a noi più prossimi, come è ora il caso di Matisse.
E tuttavia questa mostra, pur giusta e meritevole, non è esente da rischi, evocati proprio dal titolo che l’accompagna, dove il nome del grande Francese viene legato a doppio filo al motivo dell’”arabesque”. Ci sono senza dubbio delle valide ragioni per farlo, ma queste discendono anche da una pericolosa partenza di Matisse, vittima di una data di nascita, il 1869, che non lo allontanava risolutamente dalla stagione dei Simbolisti, e non lo gettava nell’arengo, dominato da Picasso, dei nati attorno all’80, che furono in grado di intraprendere la ricostruzione plastica dell’universo, all’insegna del Cubismo e derivati. Matisse invece fece in tempo ad ereditare l’intimismo alquanto soffocante dei salotti borghesi, colmi di ninnoli, vasi di fiori, tappeti, e appunto di motivi arabescati che i buoni borghesi saccheggiavano aderendo alla moda dei vari orientalismi. L’arabesco, quindi, era un dato di fatto in cui inciampare, e anche strangolarsi. I Nabis, nel quadro del Simbolismo, avevano già proceduto a sfoltire quel soffocante “tutto pieno”, inseguendo anche valenze mistiche. Si pensi ai casi di Bonnard e Vuillard, che si dibattevano in quella giungla tentando di farsi largo, mentre il loro compagno Vallotton poteva giocare la carta di un iper-realismo nordico. Matisse, tra fine ‘800 e primi del ‘900, lascia cadere le derive di impronta mistica, che non lo riguardano, affronta quei motivi con grinta selvaggia, ovvero fauve, che è anche il movimento di cui si mette alla testa, mentre assiste con titubanza alle evoluzioni delle “Dames d’Avignon”, tentandone qualche modesta ma non convinta applicazione. Si potrebbe dire che egli fiuti il futuro, comprenda che la stagione dedita al culto della macchina, coi suoi diedri ispidi e taglienti, non avrebbe avuto molto seguito. Il destino del secolo, dopo una partenza “hard,” avrebbe poi declinato, nella sua seconda metà, verso il “soft”, in cui tuttora affondiamo con piacere. E allora, accettare le soluzioni orientaleggianti, aderire all’insegnamento lanciato da Gauguin, dipingere “à plat”, celebrare la “flatness”, anzi la “superflatness”? Insomma, aderire per intero alle soluzioni dei tappeti persiani, o ad ogni altro schema decorativo proposto dalle arti di derivazione islamica, che condannano le icone e si avvolgono nelle spire dell’arabesco? Non proprio, qui sta il rischio di quell’aggancio univoco, perché Matisse resta un occidentale, e dunque introduce dei salti di dimensione, delle rotture, infrange la monotonia delle superfici facendone sprofondare alcune porzioni. Tutto questo a forza di magnifiche stesure cromatiche, giocando di gradualità fra un colore denso e pieno, e invece un suo alleggerirsi, rendersi trasparente. Le varie porzioni di tessuto non si pongono affatto su un’unica dimensione, ma al contrario alcune affiorano, vengono a galla, mentre per compenso altre affondano. I critici più attenti hanno applicato all’arte matissiana la nozione del “repoussoir”, del “respingente”. Così è, sbaglia chi ne dà una lettura tutta di superficie, e non ha occhi per sorprendere i baratri, le scollature, i giochi in verticale che si aprono, ma resi con l’estrema sottigliezza di un colorismo sempre vario e imprevisto. Basta prendere proprio il dipinto riprodotto sulla copertina del catalogo, “Zorah sulla terrazza”, e si potrà ammirare la tonalità fredda dell’azzurro dell’ombra, contro cui si accende il triangolo investito invece dalla luce solare. E i dettagli, le pantofole sulla sinistra, la vasca coi pesci rossi a destra, non sono tessere che si inseriscono nella piattezza assoluta di un mosaico, bensi buchi, voragini sprofondanti, fino a infrangere il velo di superficie. E lo stesso arabesco che domina la veste della fanciulla non è un ornamento inerte, ma funziona come un gavitello, una boa, per mostrarci che attorno ad essi lo stagno, la distesa equorea, sprofondano, respinti in giù.
Se volessimo andare alla ricerca della posterità di Matisse, dovremmo andare a Rothko, e alle sue distese dominate dagli stessi sussulti orizzontali-verticali, tra il venire a galla di strati oleosi e un loro sprofondare. O si pensi anche al nostro Paladino, che pone delle icone al centro dei dipinti, ma per respingere indietro gli sfondi, per inserire un margine di distacco.

Matisse, “Arabesque”, a cura di E. Coen, Roma, Scuderie del Quirinale, fino al 21 giugno. Cat. Skira.

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