La visita virtuale di questa domenica ci porta alla Villa Reale di Monza, dove ancora per pochi giorni è allestito il “Concerto da camera” di Franco Marrocco, con cui l’artista solennizza il termine della sua direzione dell’Accademia di Brera, passando il testimone al collega Giovanni Iovane. Confesso che non sono andato in devoto pellegrinaggio in quel luogo, ma ne avevo ricevuto per via elettronica un perfetto documentario, e del resto martedì scorso, 23 ottobre, appena giunto a Milano, mi sono recato a vedere un allestimento che Marrocco ha fatto in un circolo di Palazzo Bovara. Per di più, a tutti i partecipanti all’incontro nel pomeriggio di quello stesso giorno alle Gallerie d’Italia, dedicato proprio alla mostra di Monza, è stata data copia di un monumentale catalogo della manifestazione. Insomma, ero abbastanza autorizzato a prendere la parola attorno a quell’impresa di Marrocco, aprendo una sfilata dei molti altri critici che avevano collaborato al catalogo stesso. Ho preso le mosse proprio dal direttore della Villa Reale, Piero Addis, che credo abbia fornito la chiave migliore per entrare in merito invitandoci a riflessioni di ordine etimologico. Le quali offrono una sorpresa, forse credevamo tutti di sapere l’origine e il significato di “concerto”, come di un perfetto iintreccio di fili, di suoni a rendere un’armonia complessiva, secondo la nozione che trionfa nel mondo musicale, e che ahimé ha pure un temibile riscontro in quello della burocrazia, quando si pretende che i vari organi pubblici assumano decisioni “in concerto”. Ma forse in questo caso scatta il ben diverso significato, quale si riscontra nel sostantivo “certamen”, cioè gara, contesa, da cui mi viene subito in mente il “Certamen capitolinum”, la gara tra poemi scritti in latino, bandita ad Amsterdam, di cui il nostro Pascoli ai suoi anni era dominatore sovrano. Ebbene, all’operazione del nostro Marrocco credo che si addica molto di più questa seconda accezione rispetto alla prima, ovvero egli non ha accarezzato, assecondato gli splendori, in molti casi “taroccati”, in preda al kitsch, di quella Reggia, bensì ne ha fatto il contropelo, ingaggiando appunto un fiero duello con le mummie conservate in quel luogo, il che oltretutto gli ha consentito di dare ampia prova del polistilismo che mi pare essere l’aspetto migliore della sua arte. Andiamo a vedere. Ci sono le soluzioni in chiave di monocromo, bianche o azzurre, che però fanno pensare a quei lenzuoli che, quando una famiglia va in vacanza, vengono stesi pietosamente su poltrone e divani, non certo per esaltarne le bellezze, ma al contrario per coprirle, per proteggerle. Ma in altri casi i pesanti motivi decorativi che caratterizzano le pareti di quella reggia, le stoffe, le damascature, le marezzature, magari dominate da un rosso dilagante, non si possono certo ignorare. In questo caso l’artista ha proceduto come a liquefarle, a farle “precipitare” in una broda prevalente, quasi che da quei muri sprizzasse sangue, o che vi si fosse appiccato un incendio, rovinoso ed esaltante nello stesso tempo. Se quella Villa avesse una lunga storia risalente ai secoli bui, come altre dimore regali, si potrebbe ipotizzare che vi si fosse consumato qualche delitto, e che ora dal cadavere zampillassero appunto fiumi di sangue. Ma, sempre in nome del polistilismo. Marrocco non ha certo dimenticato che attorno a quel palazzo si stende un magnifico parco dove la natura svolge le sue forze lussureggianti, e dunque le pareti, nonostante la vigile cura dei custodi, non possono evitare che tralci, rami, flessuosi rampicanti penetrino all’interno attraverso orifizi, aperture non ermetiche, e dunque il concerto non resta relegato nelle “camere”, ma si apre a uno spettacolo vegetale, attraverso stecchi, peduncoli, “rizomi”, con cui magari si riguadagna l’altro significato, ma nel senso per cui i motivi vegetali fanno serto, intreccio, magari con la possibilità di risalire a una matriarca della nostra arte, Maria Lai, e al “racconto del filo”, come Francesca Pasini ha giustamente intitolato una mostra al MART di Rovereto che vedeva l’artista sarda in pole position. D’altra parte conviene anche precisare che questo naturalismo in quota Marrocco non è certo esuberante, trionfante, nulla da fare con i tempi dell’Informale nella versione di Francesco Arcangeli, cioè di un Ultimo naturalismo all’altezza delle sue tre “emme”, Moreni, Morlotti, Mandelli. Un critico, cercando di definire il naturalismo di Marrocco, a quel vocabolo ha subito aggiunto la connotazione dell’”artificiale”, il che mi ricorda quando io presentavo l’Arte povera e simili come un Informale freddo, o tecnologico, appunto collegandolo in binomio con l’idea dell’artificiale, magari attraverso il ricorso ai tubicini al neon, come faceva magistralmente Mario Merz, anche a complemento della selva di igloo, ora ospitata trionfalmente allo Hangar Bicocca. Era un abbinamento ripreso anche dall’a me molto caro Germano Olivotto. A dire il vero il nostro Marrocco al momento si astiene da applicazioni artificiali di questa specie, però i suoi rami spioventi ci vanno molto vicino, Nel complesso, come dice Marco Meneguzzo nel suo contributo in catalogo, la sua è un’arte “territoriale”, che evade volentieri dalla superficie per occupare l’ambiente. Ma in proposito scatta l’ultima sorpresa etimologica. Un mio collega dell’Università di Bologna, Franco Farinelli, ci ha ricordato che “territorio” non ha nulla a che fare con terra, terreno, ma viene piuttosto dal “terrere”, altro non era che lo spauracchio innalzato per spaventare gli uccelli e tenerli lontani dal raccolto. Ecco un’ultima ambiguità, in definitiva anche gli interventi di Marrocco, pur realizzati in “camere”, vi agiscono da spauracchio, ci vogliono ricordare che subito fuori preme alle porte la massa informe della vegetazione.
Franco Marrocco, “Concerto da camera”. Monza, Villa Reale, fino al 31 ottobre. Cat. Nomos Edizioni.