Non ho mai mancato di dichiarare un certo interesse, e talora anche una cauta adesione alle opere via via stese da Susanna Tamaro, a cominciare da quella che l’ha intronizzato, il “Va’ dove ti porta il cuore”. Un atteggiamento alquanto curioso, da parte di un critico considerato “cattivo”, tanto che, voglio sperare, è solo questa la ragione che mi ha espulso da tutte le sedi a stampa della repubblica delle lettere, con la sola eccezione della rivista “L’immaginazione”. O invece è una mia totale imperizia e mancanza di capacità critiche? Certo è che, invece di allearmi al coro di deplorazioni con cui è stata accolta la Tamaro, e proprio a cominciare da quel suo primo successo, io ho continuato a chiosarla benevolmente, soprattutto in favore del penultimo “Illmitz”, per cui mi sono permesso di osservare che la scrittrice in quel caso ha opportunamente rovesciato il punto di vista, non facendo più parlare una nonna, bensì un giovane, magari proprio il o la nipote che la nonna aveva tentato di raggiungere col suo flebile lamento. Meglio insomma un asse diretto, la parola ai giovani, immersi in uno stato di bisogno, di disagio, sia psichico che materiale, mentre i parenti, soprattutto i genitori, si mostrano lontani e indifferenti, e non si salvano neppure le nonne, così da smentire il quadretto idillico suggerito dal successo iniziale. Tutto ciò affidato anche a motivi di narrazione, a deambulazioni, casi di vita, come vogliono le regole del “plot”. Ora invece, in questo “Il tuo sguardo illumina il mondo”, la Tamaro accorcia ancor più le distanze, ci parla in prima persona, si cala nei panni dell’”autofiction”, quasi stendendo pagine di diario. Anzi, la nonna non solo è lontana ma rientra nel capo d’accusa lanciato in genere contro tutti i parenti, ance se poi tra le righe la scrittrice deve riconoscere che è stata proprio l’ava in apparenza lontana e indifferente ad avere la buona idea di farla partecipare al concorso per il Centro Sperimentale di Cinematografia, da cui è partito il cursus honorum della Nostra. Che comunque qui punta a dialogare alla pari con un partner, con il poeta Pierluigi Cappello, che ammetto di non conoscere, di non aver mai letto, ma poco importa, dato che questo monologo si rivolge a una persona che giace in un letto d’ospedale, immobilizzato in carrozzella, e del resto non è un canto d’amore fisico, di un qualche rapporto sessuale consumato. La narratrice dichiara un abbastanza palese rapporto di omosessualità con una vigile governante-badante che le è al fianco, e le permette di tuffarsi in deliziose riflessioni a contatto col mondo vegetale e animale. Sono proprio le sensazioni ed emozioni suscitate da questi rapporti a costituire il meglio di una confessione, emessa da chi dichiara di partecipare a un “apprendistato entomologico”. Forse potrei invitare la Tamaro ad andare a leggersi i saggi che Maurice Maeterlink, nella fase tarda della sua carriera, e chiusi i capitoli della poesia e del teatro, ha dedicato al mondo degli insetti, formiche, api, termiti. E’ questo il versante del cosmo che suscita nella scrittrice le migliori metafore, come quella di paragonarsi ai canarini che i minatori di un tempo si portavano al fondo delle miniere in quanto quelle bestiole erano le prime ad avvertire quando l’aria diveniva irrespirabile per lo sprigionarsi di gas, interrompendo il canto. Fuor di metafora, ad allarmarci sono i gas, i miasmi che emanano da tutta la nostra presente civiltà, piena di prodotti artificiali, lontani dalla genuinità di ciò che è semplice e naturale. A differenza dei minatori di un tempo, la Nostra, beninteso, non è tenuta a sprofondarsi nel sottosuolo, ma certo basta frugare in superficie i segreti dei boschi, dei ceppi che magari sembrano morti, ma svolgono ancora malgrado tutto un “irresistibile nursering”, ospitando il nido di qualche minuto e indifeso animaletto. Un’altra efficace metafora è quella secondo cui. per simpatia verso il poeta cui va la sua triste elegia, anche lei è come si ponesse in una “sedia a rotelle interiore”, un po’ come succede, in una bella novella di Mauro Covacich, a quel triste amante che si fascia gli occhi con una benda per condividere la cecità della sua beneamata. In fondo, lo stesso “amor di terra lontana”, l’infelice poeta Cappello, corrisponde al canarino piazzato nel bel mezzo del nostro ginepraio, a denunciare i pericoli di asfissia che ne emanano.
Susanna Tamaro, Il tuo sguardo illumina il mondo, Solferino, pp. 205, euro 15.