Giorgio Marconi è un gallerista di rara fedeltà verso le scelte da lui effettuate in una carriera ormai lunga, una dote, un carattere vieppiù ribaditi ora che il suo Studio si è trasformato in Fondazione, e dunque vi compaiono periodicamente omaggi ad artisti da lui sempre amati, quali i protagonisti di una Pop in stile milanese, cioè ricco di racconto, si vedano i casi di Valerio Adami, Enrico Baj, Emilio, Tadini o, per un opposto rigore geometrico, di Gianfranco Pardi, con puntate verso il “concettuale” umoroso di Bruno di Bello, e un’assunzione molto sofisticata di protagonisti della congiuntura ’70-80, pescando nella quale egli senza dubbio non ha mancato di dare credito ad alcune firme appartenenti ai miei Nuovi-nuovi, si pensi tra gli altri a Marcello Jori, a Giuseppe Maraniello. Ma soprattutto il suo preferito è stato Aldo Spoldi (1950) che ritorna in ben cadenzati appuntamenti ad animare le pareti dello spazio di Via Tadino, con allestimenti sempre originali, multipli, vivaci. Alla loro base c’è sempre la virtù prima dell’artista di Crema, che è di sminuzzare le immagini, di farle a pezzetti, come tessere di un puzzle da riassemblare, o anche da lasciare suddiviso nelle sue tante componenti. E interviene anche un senso di squilibrio dimensionale, tra il piccolo e il grande, per cui questa folla di personaggi può presentarsi in formato minuscolo, come figurine pronte per essere appiccicate in un album e presentate all’incasso di un qualche premio. O invece, questi insetti ingegnosi, questi grilli parlanti si possono allargare e distendere. Infatti Spoldi è come un Gulliver dei nostri giorni, celere nel passare dall’universo del piccolo, da Lilliput, a quello dei giganti di Brobdingnac. Circa mezzo secolo fa ho curato proprio a Milano, con l’aiuto di Franco Toselli, una mostra proprio intitolata ai “Viaggi di Gulliver nei regni della percezione”, dedicata ad artisti specializzati nell’ingrandire o nel rimpicciolire, ma non vi ho potuto inserire il nostro Spoldi perché non aveva ancora iniziato questo suo brillante esercizio. Il quale non si esplica solo lungo un asse verticale, ma ne possiede anche uno rotatorio, nel senso che queste figure si danno anche a prove di equilibrio, volteggiando su sfere mobili. Oppure svolgono una funzione di trapezisti andando ad animare decisamente le pareti, avvalendosi di una serie di gomene rosseggianti, quasi liane di una giungla rigorosamente artificiale. Inutile dire infatti che questo universo, questo “Mondo nuovo”, come recita il titolo globale della mostra, è tutto un inno a favore dell’artificio, dove la natura non entra per nulla. Spoldi è un figlio dell’era tecnologica, in lui trovano posto solo le icone del consumismo, magari evocate nei primi tempi del loro apparire, quando per esempio le auto sono ancora alquanto primitive nelle loro linee, ma sempre affidate a una cromia squillante, da cui sembra elevarsi il suono fragoroso di un clacson. Ed è pure insito l’invito a salire a bordo per andare a zonzo lungo itinerari mobili. Il tutto, in definitiva, trova ispirazione nel famoso Circo di Yokoama, quello stesso che, secondo la geniale invenzione di Kafka, riesce a trovare un’occasione di lavoro per chiunque, anche per giovani diseredati e in perenne fuga da professioni serie, come è proprio il Karl Rossman, protagonista di “America”, e come è lo stesso Aldo, sempre pronto a spiccare il volo, a imbarcare il suo universo di figurine “pour une belle promenade”, come dicevano una volta i motoscafi invitanti i bagnanti stranieri a compiere una gita lungo le rive dell’Adriatico. Ogni installazione di Spoldi, oltre a esorbitare da impostazioni fisse, è anche sempre pronta a “fare i bagagli”, a imbarcarsi, come un mercatino ambulante disponibile ad andare ad animare le fiere paesane, che fuori di metafora sarebbero poi le altre gallerie disposte ad accogliere questo spettacolo sempre vario e promettente.
Aldo Spoldi, “Il mondo nuovo” (“La storia del mondo”). Milano, Fondazione Marconi, fino al 10 novembre.