Tra tutti i miei amatissimi narratori emersi negli anni ’90 e consacrati dagli appuntamenti reggiani di RicercaRE, Enrico Brizzi è forse in assoluto il più prolifico, con addirittura migliaia di pagine fatte uscire nelle varie caselle di un laboratorio narrativo che riesce a trovare via via nuove risorse. Può valere per lui l’immagine dell’ammalato, ma in realtà bene in salute, che decide di rivoltarsi nel letto scoprendo sempre nuove posizioni. C’è stata la partenza nel segno delle tenere ma un po’ esangui vicende adolescenziali, il “Jack frusciante è uscito dal gruppo”, ormai una “cult novel” al pari dei primi romanzi di Silvia Ballestra. Poi, con attenta regia, ha pensato di dover calcare la mano immettendo in quelle trame qualche carica di violenza, ed è venuta un’opera a mio avviso sbagliata, “Bastogne”. suggestionata da film hollywoodiani intonati alla brutalità più spinta. Poi, la scoperta di nuovi fertili orizzonti, come i resoconti di viaggi a piedi, lungo la via francigena o di un pellegrinaggio verso Santiago de Compostela, e poi ancora una invenzione di cui gli va dato tutto il merito, una specie di fantapolitica, consistente, non già nel rivisitare il passato tentando la carta del romanzo storico, bensì ipotizzando un futuro ipotetico di un Mussolini capace di cambiare fronte e di schierarsi con le sue milizie dalla parte dei vincitori, degli Alleati, risalendo addirittura la nostra Penisola con le loro truppe. Più di recente, un’opera diciamo di grado zero, collocata ai nostri giorni, di un bravo giovane mandato dai genitori ansiosi a indagare sulla comparsa di un fratello, titolare di un “Matrimonio” corrispondente al titolo del romanzo relativo. In tutte queste prove Brizzi si è mostrato in possesso di sottile spirito analitico, alleggerito da un pregevole senso del comico, capace di trarre profitto da ogni vicenda, anche se minore o minuscola, con visuale ad ampio raggio, pronta a far luce su mille dettagli marginali. Una corda che invece non mi pare che gli convenga è quella della violenza, della ferocia, come far penetrare un elefante in un negozio di vasellame, di casalinghi comodi e confortevoli. Ora, temendo di aver esaurito tutte le posizioni da assumere nel letto proverbiale, sembra quasi che il Nostro abbia deciso di ricominciare daccapo, ritornando al romanzo di avvio, tale almeno è stato visto dai commentatori, in base a una sua stessa presentazione, il recente “Tu che sei di me la miglior parte”. E’ dunque un narratore che a distanza di un trentennio ritorna, non certo sul luogo del delitto, ma anzi in un paradiso perduto di deliziose vicende adolescenziali, di ragazzini solerti, ingegnosi, curiosi di conoscere le vie del sesso, rotti a mille sotterfugi, in un rapporto di competizione con genitori, maestri, autorità di ogni specie. Per giustificare la ripresa Brizzi si tuffa in una moltiplicazione di effetti, come se quanto nella prova giovanile era dato tutto d’un pezzo ora venisse sbocconcellato, rifratto come da uno specchio smerigliato, da un caleidoscopio. Col rischio, evidente nel porre la questione proprio in questi termini, di non riuscire a evitare una certa ripetizione, un sorta di “piétiner sur place”, e questo proprio a cominciare dai personaggi di più risoluta presenza plastica di cui una narrazione non può fare a meno. E dunque, siamo assediati da tutti i minuti accadimenti gravanti sul protagonista che ci parla in prima persona, Tommy Bandiera: malattie, disgrazie, primi amori infelici. Qualcosa del genere si deve ripetere per il deuteragonista, che si chiama Raul, e che diviene come un asso pigliatutto, un mito, cui attribuire ogni virtù, anzi, ogni vizio, una guida spirituale in ogni mancanza, in ogni oltraggio da commettere contro il mondo dei “grandi”. E beninteso, si crea un rapporto di subordinazione, tra questa sorta di “grande amico”, alla maniera dell’indimenticabile “Grand Maulnes” del francese Fournier, e l’umile narratore, pronto a sottostare perfino ai giochi sessuali dall’altro, ad accettare che gli porti via i favori della terza protagonista, Ester, che diviene la posta in gioco tra i due. Ma soprattutto, l’essersi messo sulla via del remake comprende pure il ritorno alla chiave della violenza. Questi ragazzini, in linea di massima deliziosi nella loro inesperienza, o nei loro “peccadillos” senza troppo peso, a un certo momento diventano degli arrabbiati, approfittando delle tensioni tra opposte tifoserie. Sembra quasi che il narratore bolognese abbia deciso di fare concorrenza al Gazzaniga vincitore di un Premio Calvino del 2012 e del suo “A viso coperto”, ma in quel caso ci si parlava davvero degli scontri tra le forze dell’ordine e gruppi d’assalto pronti a ogni violenza, invece le scorrerie dei nostri giovanotti non hanno avuto cittadinanza nel mondo felsineo. Caso mai, Brizzi avrebbe dovuto indietreggiare al drammatico ’77, ma non ha inteso farlo, si sarebbe sentito troppo condizionato da un dato effettivo di cronaca o di storia. Però, quella barbarie messa in scena da lui in quest’occasione è davvero eccessiva, stona con l’epica leggera per lo più dominante. E c’è anche un gran finale, ma anche in questo caso alquanto esorbitante dal tono prevalente, e felicemente dispiegato nella maggior parte di queste pagine. Alla fine i tre protagonisti, il narratore, Ester e Raul si trovano per un rendiconto, un duello giocati su ogni tasto, da eroi decisi ad assumere un rilievo gigante. Ma è troppo tardi, o quanto meno è una svolta che stride, stona con la tela intessuta fino a quel momento, quasi che Brizzi avesse deciso che era già l’ora di trovare un’altra posizione nel letto.
Enrico Brizzi, Tu che sei di me la miglior parte, Mondadori, pp. 543, euro 20.