Sono stato a visitare la mostra di Ketty La Rocca, al PAC di Ferrara, solo a pochi giorni dalla chiusura, per quella reticenza, o diciamo pure paura che ci prende a riaprire dei casi che ci sono stati molto vicini, come lo è stata Ketty a me per tante occasioni che ora vado a ricordare. I primi incontri con lei risalgono agli anni ’60, quando fu mia cura stabilire una alleanza tra il Gruppo 63, ormai nato e affermato, e il fiorentino Gruppo 70, che aveva posto il suo traguardo più in là, ma in sostanza navigavamo con buona sinergia nella seconda metà dei ’60, e nacque pure la modalità del “doppio tesseramento”, cioè la possibilità di militare nell’uno e nell’altro fronte, di cui aveva già usufruito il numero uno della poesia visiva, Lamberto Pignotti, partecipe dei nostri incontri palermitani, mentre io partecipavo a quelli dei cugini d’oltre Appennino, assicurati da ben congegnati convegni al Forte del Belvedere, anche attorno alla rivista “Techne”, che raccoglievano il fior fiore di tutte le neoavanguardie. Fu in quel fertile terreno che incontravo Ketty, però già pronta a seguire un proprio cammino che la portava a sdegnare le icone della pubblicità, del rotocalco, come era nella pratica di Pignotti e compagni. Lei militava piuttosto in quella che si dovrebbe dire poesia concreta, o lettrista, dove le icone erano quasi assenti, o intervenivano “quanto basta” per sostenere messaggi già di specie “concettuale”, massime, apologhi pieni anche di finalità impegnate sul sociale. In fondo, il suo punto di riferimento si poteva scorgere in Giuseppe Chiari e nel suo coraggio di fare uso di frasi nude e crude. Si aggiunga che queste finalità “concettuali” in Ketty erano pronte anche a materializzarsi, per esempio le lettere si ingrandivano, davano luogo a delle “i” monumentali, come steli, con tanto di sfera in luogo del puntino. Ho ancora nella mia collezione uno di questi reperti, fatti di fragili assicelle. Ma in sostanza Ketty mi aveva colpito e convinto, tanto che la invitai in una mostra a Ferrara, assieme ad altri tre artisti su cui avevo ugualmente scommesso, uno dei quali, Luigi Ontani, è poi risultato, come lei, un cavallo sicuramente vincente, mentre gli altri due, Carlo Bonfà e Giuseppe Del Franco, quest’ultimo come Ketty scomparso, hanno avuto una navigazione più incerta. A permettermi di esibirli era stato un personaggio straordinario, che ci ha lasciato proprio in questi giorni, e dunque lo associo nel ricordo. Si tratta di Franco Farina, che nella città estense aveva creato un’isola felice, una specie di flotta di contenitori vari e di tutte le dimensioni, avendo nel Palazzo dei Diamanti la nave regina, ma a fianco c’erano pure degli ampi stanzoni dove i quattro esposero. Fra l’altro, c’era anche la Palazzina di Parco Massari dove è allestita la mostra di cui sto parlando. Farina era un miracolo vivente, dato che con i pochi soldi che riceveva dal Comune di Ferrara riusciva ad alimentare quella multiforme schiera di spazi, forse troppi, ma così dando luogo a un caos fertile e vitale. Il 1972 fu per me un anno importante in quanto mi si presentò la possibilità di celebrare il “comportamento” in una nota rassegna nel padiglione centrale della Biennale di Venezia di quell’anno, su invito di Francesco Arcangeli e in una dialettica spartizione di responsabilità con lui. Devo ammettere che Ketty me ne volle, assieme a Ontani perché non osai invitare loro stessi, nella peraltro sparuta selezione che mi fu possibile offrire. preferii puntare su nomi più consolidati, ma fornii ai due un compenso procurandogli la possibilità di realizzare ciascuno un video con il grande Gerry Schum, fondatore ufficiale della videoarte, che ritenni indispensabile far intervenire in quell’occasione. Intanto il linguaggio di Ketty andava maturando, stabilizzandosi si può dire in una polarizzazione agli estremi, per un verso la corporalità, affidata soprattutto alle mani, come punta d’attacco della nostra espressività. Il passaggio attraverso il concretismo le serviva per un abile ricorso al bianco e nero, con quelle mani emergenti da uno sfondo di tenebre a protendere e divaricare le loro dita. Ma accanto alla manifestazione diretta delle nostre membra Ketty, sempre fedele alla sua partenza, ci teneva anche a svolgere manifestazioni di scrittura, che andavano a sovrapporsi al linguaggio muto di mani e dita, quasi sorreggendosi, o incrementandosi, a vicenda. Infatti la più bella delle sue invenzioni è stata quella di creare un sistema di trascrizioni, di codifiche o decodifiche, in parallelo con quanto stava avvenendo grazie alla diffusione del linguaggio elettronico digitale. Infatti negli ultimi anni, ahimé molto pochi, di vita, l’artista fiorentina ha proceduto a condurre questi passaggi da un codice a un altro, come oggi è molto facile fare semplicemente cliccando su qualche tasto. Allora invece la conversione doveva essere fatta a mano, e fu proprio questa l’impresa cui lei si diede, con rigore, tenacia, perseveranza, fino forse a deludere i partigiani dell’una o dell’altra forma espressiva, Chi amava le manifestazioni corporee poteva rimanere deluso nel vederle come sfregiate da quelle scritte, quasi da scolaretto che fissa la lezione sul dritto o sul rovescio della mano, per averla pronta all’uso. Gli amanti di soluzioni “mentali” potevano avvertire quella commistione come una sorta di tradimento, ma tale era la volontà di Ketty, procedere impavida nell’incrociare i due linguaggi, nel passare prontamente dall’uno all’altro. Fui ben lieto di fare di lei il fulcro di una mostra, “Parlare e scrivere” che Plinio De Martiis, il mitico direttore della Tartaruga di Piazza del Popolo a Roma, mi permise di tenere, nel 1975, in una sua nuova sede in via Pompeo Magno. E Ketty vi era presente grazie al suo video “totale”, interamente affidato all’eloquenza di braccia e dita protese in una intensa volontà di significare in tutti i modi possibili.
Ketty La Rocca, Gesture, speech and word. Ferrara, a cura di Francesca Gallo e Raffaella Perna. Ferrara. PAC, fino al 3 giugno.