Martedì scorso 29 maggio la RAI 1 ci ha fatto un dono straordinario trasmettendo un film di Pupi Avati, che non sembra venire da uno di quei recuperi da cui siamo afflitti, e neppure è una produzione concepita proprio per il piccolo schermo. Si tratta insomma di una pellicola “normale”, intitolata “Il fulgore di Dony”, e mai titolo appare più giusto, infatti il film è dominato dalla luce, dalla grazia, dalla freschezza emananti dalla protagonista, Greta Zuccheri Montanari, una adolescente magra, ascetica, tutta anima, forza di volontà, tesa verso un pieno sacrificio di sé. Avati ci ha abituato a essere scopritore di talenti femminili, si pensi a Alba Rohrwacher, ora consacrata dal palmarès ricevuto a Cannes. In precedenza era pure riuscito a fare un uso fortemente significativo di Vanessa Incontrada. E proprio a questa voglio riferirmi, capricciosa, umorosa dominatrice del film “Il cuore altrove”, di cui mi pare che l’attuale realizzazione ci offra una specie di inversione, o di contraltare. Allora nel ruolo maschile c’era un “semplice”, impersonato da Neri Marcorè, a questo proposito si deve pur ricordare quanto il nostro Avati sia anche valorizzatore di attori, da Marcorè stesso a Albanese, Abatantuono e tanti altri. In quell’opera è il maschio a essere catturato dal fascino emanante dalla protagonista femminile, fino a superare lo sconcerto che può provocare l’ infermità di lei, la cecità che sembrerebbe irreversibile. Il giovanotto si dedica corpo e anima alla donna incantatrice, pronto a sacrificarsi per lei, nonostante le rampogne dei “normali”. Qui c’è appunto l’inversione, Dony è una ragazzina, una scolaretta “acqua e sapone” inserita nel calore e conforto domestico, che però ha anch’essa un colpo di fulmine, quando vede apparire il bel Marco, una vera e propria epifania, un innamoramento senza scampo. All’inizio il partner è robusto e florido, ma poi un incidente nell’esercizio dello sci gli procura una lesione cerebrale che lo conduce passo passo alla demenza. Anche l’attore, Saul Nanni, è ben scelto, portatore di una bellezza angelica che fa strazio di Dany, sostituito poi da una maschera ghignante di chi vive ormai in un’altra dimensione, forse diabolica. Infatti il sorriso stereotipato, immobile del malato psichico mi ricorda il modo geniale con cui Fellini, di cui Avati è ora ottimo erede, rappresenta il diavolo nell’ episodio che gli spetta nel film a varie mani “Quattro passi nel delirio”. Naturalmente ci sono differenze, tra le due opere del nostro regista, infatti la Incontrada della pellicola precedente esce dalla sciagura, riacquista la vista e con essa la confidente appartenenza a un mondo alto borghese, e non esita a dimenticare quell’essere umilmente devoto e pronto al sacrificio estremo. Qui invece non c’è riscatto per il nostro angelo-demone, costretto a discendere tutti i gradini della decadenza psichica, e dunque ancor più meritoria risulta la devozione senza limiti che gli presta la ragazzina, fino a sfidare la famiglia, i compagni di scuola, l’intero contesto borghese in cui potrebbe vivere tranquillamente. Bravi anche gli altri, anche se i genitori di lei, Ambra Angiolini, Giulio Scarpati, sono costretti a recitare un copione infelice, devono fare i difensori del buon senso, dell’opportunismo, contro cui spicca ancor più la nobiltà d’animo della figlia. Un po’ più generosa la parte spettante a Lunetta Savinio, in quanto madre della vittima, ma anche lei in definitiva chiusa in un egoismo, in una difesa oltranzista dei diritti del figlio. E c’è anche il rilancio di un eccellente attore come Andrea Roncato nei panni del padre di Marco, rassegnato alla perdita del figlio, e addirittura propenso a esortare Dony a fuggir via, ad abbandonare una causa perduta in partenza. Infine, l’unico che la capisce e ne condivide lo slancio umanitario è un anch’egli eccellente Alessandro Haber. Tornando a Dony, non la vediamo arretrare davanti ad ognuna delle tappe di una lunga via crucis accanto al corpo sempre più immiserito in pratiche bestiali di Marco, pronta a esaudire nei limiti del possibile i suoi desideri, come quello di visitare un supermercato ribaltandone gli scaffali delle merci, facendo danni come in un film comico muto delle origini. Questa scrupolosa, tenera, convinta vicinanza di Dony a un corpo chiuso in un mondo di incomunicabilità può ricordare un altro precedente, questa volta al di fuori dell’albo d’oro di Avati, c’è infatti qualche rassomiglianza col capolavoro di Pedro Almodovar, “Habla con ella”. In definitiva la prigione di delirio in cui Marco è racchiuso risulta molto simile allo stato di “sempreverde” del corpo femminile cui l’infermiere nella pièce del regista spagnolo dedica la sua cura paziente. Marco vive, ma in un universo “altro”, misterioso, angelico o diabolico, il che non impedisce a Dony di fare il passo estremo, di congiungersi con lui, forse nel rito di un matrimonio, o comunque dello scambio di un anello che sancisce l’accettazione, da parte di lei, di un legame che intende rendere indissolubile.