Sono in presenza del romanzone, steso da Paolo Giordano, “Divorare il cielo”, terzo, se non sbaglio, nella sua produzione, dopo essermi già pronunciato sui due precedenti, “La solitudine dei numeri primi”, fortunato vincitore del Premio Strega, e il successivo “Il corpo umano”. Fossi in sede di pollici, come mi succede quando mi dichiaro sulle pagine dell’”Immaginazione”, nutrirei qualche incertezza se puntare il dito in alto o in basso. C’è ancora una volta una farraginosa quantità di materiali tra cui lo stesso autore non sa scegliere bene tra il buono e no, e lo stesso titolo qui assunto non aiuta per niente, non trova quasi corrispondenza con i contenuti interni. Ma nel complesso la navigazione, pur essendo faticosa, ricca al solito di continui ricorsi al flash back che ne ritardano il flusso, ha tuttavia una sua coerenza finale. Vediamo i vari segmenti che entrano nel polpettone, che però alla fine rende un sapore gradevole. Ci sono due protagonisti, Teresa Gasparro, di buona famiglia torinese, ma attratta dal Sud, dove la famiglia ha una villa con piscina, e dove le avviene di incontrare il suo partner di più lunga durata, noto con un breve Bern, pieno di valenze, fin troppe. In quelle calde terre meridionali Teresa incontra un mondo dissestato e precario, dove accanto a Bern compaiono altri due suoi compagni, con legami di parentela che si chiariscono solo in corso d’opera. I quattro adolescenti formano una comunità anarchica, protestataria, dedita a culti quasi feticistici, consistenti nel tentare di salvare animali, magari anche ripugnanti come le rane, salvo poi a dar loro delle esequie quasi con rito sacrale, incoraggiato da una coppia che si è fatta carico dei tre giovani costituendo con loro una specie di comunità mistica. E’ subito chiaro che il filo conduttore dell’intera vicenda è l’amore tra Teresa e Bern, però ostacolato all’infinito, simile a una corsa a ostacoli, con tanti episodi divaricati, tante storie frapposte. Infatti il maschio protago puònista compiacersi di un suo brutalismo, di un suo spirito violento che lo porta a mettere in campo svolte, tradimenti, con sequenze che senza dubbio in sé hanno una notevole efficacia, ma con qualche difficoltà a rifluire nel corpo centrale della vicenda. Per esempio Bern, sempre sprezzante nei confronti del sentimento che pure lo lega a Teresa, anche per reagire alla condizione borghese di lei, si tuffa nell’avventura con un’altra giovane, che mette incinta, così potendo infilare nella narrazione la cronaca di un aborto, come un tempo (siamo alquanto lontani dai nostri giorni) poteva avvenire in aree geografiche e culturali non pronte a renderlo agevole. Ma poi l’inevitabile piega sentimentale si impone, i due si mettono davvero assieme, col proposito di giungere a generare un figlio, vincendo l’apparente sterilità di lei, e qui altra sequenza in sé efficace, ma al solito spiazzante, che consiste nel soggiorno della coppia in un Paese in cui la fecondazione assistita è ammessa, e in attesa che questa possa avvenire, il seme di lui viene messo in banca per un eventuale uso futuro. La comunità in partenza quasi viscerale dei tre giovani si spezza, in quanto il solito Bern, sempre più anarchico e ribelle, giunge a provocare la morte del fraterno compagno Michele, passato invece a militare tra le forze dell’ordine. Da qui la necessità che egli si dia alla fuga, inseguito dalla dolente e inconsolabile Teresa. Devo dire che proprio questa fuga ha momenti convincenti, come quando il fuggitivo giunge a recuperare un padre vivente all’estero e fino a quel momento assente. Infine Bern ripara in un luogo del tutto imprevedibile e strampalato, come Islanda. Questo finale potrebbe essere tacciato di inverosimiglianza, ma ha una sua grandezza, infatti il tristo eroe va a vivere in una grotta, isolandosi dagli altri umani, patendo una voluta o subita reclusione, agitandosi in quella cavità come un anacoreta dei nostri giorni, come un santone disposto a dare udienza, a ricevere visite di persone, purché queste si sappiano tenere a debita distanza. Poi, se ne va, e allora Teresa può realizzare il vecchio sogno, andare a utilizzare il seme del suo amato rimasto congelato, farselo inoculare e averne finalmente un figlio, un erede. Difficile fare i conti, delle entrate e delle uscite, stabilire se la somma risultante, di tanto “suono e furia”, sia positivo o negativo, ma certo l’edificio, nonostante le molte crepe, risulta accattivante.
Paolo Giordano, Divorare il cielo. Einaudi, pp. 430, euro 22.