Arte

Il misticismo laico di Mark Wallinger

Il Centro Pecci di Prato dedica un più che opportuno omaggio all’inglese Mark Wallinger (1950), il maggior videoartista attivo in Gran Bretagna. In realtà la mostra è stata lasciata in eredità da Fabio Cavallucci, direttore del Centro fino all’anno scorso, licenziato dall’amministrazione comunale pratese non si sa bene per quale ragione, dopo che due dei tre anni che gli spettavano per contratto erano trascorsi in attesa che i lavori di ampliamento dell’edificio fossero terminati. Cavallucci aveva già avuto modo di lavorare con Wallinger quando dirigeva la Galleria comunale di Trento, dove nel 2002 aveva organizzato, assieme a Alessandra Borgogelli, una collettiva dal titolo “Parole parole parole”, e l’artista inglese vi era potuto entrare in quanto è solito accompagnare i suoi video con colonne sonore in cui pronuncia versetti da qualche testo sacro, in pieno accordo col contenuto dei video stessi, che si possono dire improntati a una sorta di misticismo laico, molto semplice nelle modalità di presentarsi ma molto intenso. Ne ricordo alcuni, pescando nella mia memoria, non mi pare infatti che la mostra al Pecci ne fornisca una antologia. Wallinger si era rivelato con uno di quei suoi gesti misteriosi condotti in completa controtendenza. Si tratta di un cieco, come sta a indicare la bacchetta bianca, agitata alla ricerca di un equilibrio, mentre compie un atto in apparenza insensato, come sarebbe il risalire a ritroso lungo una scala mobile, pronunciando intanto qualche versetto, al modo di chi sta compiendo una penitenza e sente di doversi emendare da qualche peccato. Io stesso, nel 1999, nel quadro di “Officina Europa”, lo avevo presentato proiettando su una parete del S. Domenico di Imola un altro video molto suggestivo, dove il punto di vista è tenuto da un malato sdraiato sul letto operatorio, mentre su di lui cade la luce di un apparato illuminante come si conviene a un’occasione del genere. L’offuscamento della lucidità del paziente, sottoposto ad anestesia, viene indicata dall’impallidire della luce stessa, che poi ritorna nitida, quasi implacabile, con movimento alterno, mentre anche qui una voce fuori campo recita versetti, mi pare di ricordare dell’Apocalisse. Proprio a conferma di questa sua vocazione mistica l’artista ha pure osato andare a occupare la cripta del Duomo di Milano con una “Via dolorosa”, nel 2013, dove il senso del sacro sta in una specie di punizione, anche in questo caso, della vista, in quanto lo schermo è annerito, e solo ai lati si svolge una qualche azione marginale. Infine, nella Biennale di Venezia del 2015, ma trasferendovi una produzione concepita per Berlino, ha portato l’immagine di un orso, simbolo della capitale tedesca, ad aggirarsi per ore e ore racchiuso dentro lo spazio espositivo, quasi simulando la condizione di un visitatore che, anche qui per punizione, quasi per un inferno terrestre, fosse condannato a vedere tutti i video presenti in mostra. Il connazionale Steve McQueen, anche lui ospite della Biennale nel 2007, aveva escogitato qualcosa di simile, riprendendo pazientemente per molti giorni i padiglioni vuoti dei Giardini di S. Elena, invasi solo da un branco di cani in vana ricerca di prede. Venendo propriamente alla mostra al Pecci, vi si verifica un fenomeno comune anche ad altre vedettes distintesi in partenza con performances, poi affluite nei video, basti pensare fra tutti al caso di Marina Abramovic, ma che in seguito hanno sentito il bisogno di uscir fuori dai video per andare a occupare le pareti degli spazi a loro disposizione con opere più “normali”. O meglio, sembra quasi che Wallinger ci dia come degli appunti da cui in seguito potrebbero nascere video, sempre ispirati a questo suo sentirsi cittadino del mondo, chiamato alla vigilia di una specie di giudizio universale. All’inizio di tutto c’è un “Ecce homo” dove l’artista preleva il gesto solenne presente nell’affresco michelangiolesco della Sistina, delle mani protese da Dio verso Adamo per dargli vita, atto iniziale della nostra condizione umana. Che oggi, in piena società globalizzata, deve tener conto del differenziarsi di usi e costumi, ecco quindi una serie di ritratti virili caratterizzati, ciascuno, dal portare in testa un copricapo tipico della propria etnia, nel tentativo di una coesistenza pacifica. Ci sono poi gli scavi nella propria interiorità, con l’”io”, in inglese “I”, come una colonna verticale che svetta alta nello spazio. E a ulteriore conferma di questo viaggio nel nostro interno l’artista, con opera grafica, spiattella su parete una radiografia del nostro scheletro trattato come una macchia simmetrica, alla maniera di un testo di Rorsach, come sempre enigmatico e misterioso, tanto da far nascere la tentazione di ricavarne auspici o interpretazione varie. E ci sono altri esperimenti, prove, suggestioni, meglio comunque che l’artista non rimandi troppo, o addirittura non eviti una confluenza finale di questi assaggi nella maestosa fluenza di un video, che resta la sua specialità dominante.
Centro Pecci, Prato, fino al 10 giugno.

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