La presenza presso i nostri musei dei tre grandi stampatori giapponesi tra fine ‘700 e ‘800, nell’ordine, Utamaro (1753-1806), Hokusai (1760-1849) e Hiroshige (1797-1858) è ormai ricorrente e profusa in abbondanza. In questo momento, per esempio, l’ultimo dei tre, che era anche il più giovane, è presente in misura perfino eccessiva con centinaia di opere, alle romane Scuderie del Quirinale, mentre sul secondo, Hokusai, Einaudi traduce e pubblica una vasta monografia. L’Occidente ebbe un primo campanello d’allarme dell’esistenza di questa sfida ai presupposti del nostro realismo mimetico già sul finire del ‘700, quando si aprì una faglia, una crepa minacciosa, al confine tra il moderno e il contemporaneo, per dirla con i manuali, quando cioè si ebbe qualche sentore della rivoluzione fondata sull’elettromagnetismo, ma poi noi tirammo dritto fino all’Impressionismo. Fu allora che le minacce estremo-orientali sembrarono ritornare alla carica e ottenere maggiore credito. Da quel momento è divenuto consueto dire che finalmente la nostra arte era influenzata dai lontani rivali del Sol Levante, come faceva fede il famoso ritratto di Zola steso da Manet, con alle spalle un ampio dispiegamento di stampe giapponesi. Ma è ora di correggere un errore storiografico, di fatto gli Impressionisti proseguivano lungo la strada nostrana, che si distingueva da quella dei lontani parenti in quanto, fin dai tempi di Leon Battista Alberti, avevamo abbracciato la prospettiva dotata del punto di fuga, che del resto stava per ottenere una conferma proprio dalla macchina fotografica. Non è affatto casuale che la prima mostra ufficiale degli Impressionisti avvenisse nello studio fotografico di Nadar, in quel momento il “fatto a mano” e con la sola forza dell’occhio trovava una conferma dall’impiego di uno strumento tecnologico, tanto più sicuro, così da indurre i pittori a lasciare al concorrente il compito di fornire un’immagine fedele del reale, andando a battere le diverse vie dell’astrazione. Ebbene, la grande differenza sta nel fatto che gli estremo-orientali non conobbero mai quel piccolo ma rivoluzionario stratagemma di dotare la rappresentazione della convergenza delle linee verso un unico punto. Proprio l’ampia rassegna di Hiroshige ci dimostra che i suoi paesaggi, pur eccellenti nella precisione dei dettagli con cui compaiono case, giardini, coltivazioni, vedute di marine o di monti, mantenevano un sistema che noi diremmo assonometrico. Ovvero le linee di fuga, pur obliquando per suggerire la distanza spaziale, restano parallele tra loro, e dunque non “stringono” i dati visivi, sarebbe come usare un compasso allentato che non afferra, non precisa. Invece il sistema ideato dall’Alberti infilza i dati, ne consente una trascrizione di alta precisione. Altra differenza: dopo l’Alberti è venuto Leonardo con la sua prospettiva aerea, ha scoperto cioè che il mondo è immerso nell’atmosfera, la quale procede ulteriormente a graduare i corpi, a far entrare in gioco il fattore distanza. Invece i paesaggi di Hiroshige e compagni, pur pieni di dettagli, non sanno affrontare il fattore distanza, ci danno una specie di eterno presente, le immagini stazionano in un immobile primo piano. La conseguenza è del massimo rilievo. Dotati di quegli accorgimenti per apprestare una mappatura dei territori ad alta fedeltà, i nostri artisti nei secoli hanno consegnato a condottieri di eserciti e a squadre di mercanti una cartografia chiara, di alta precisione, che invece è mancata ai loro concorrenti di altre parti del pianeta. Forse questa è una delle ragioni che hanno consentito a noi Occidentali di andare alla conquista della Terra, il che non è avvenuto in pari grado da parte di altre culture pur altamente sviluppate, come quella della Cina, cui poi è subentrato il Giappone. Ovvero, il realismo mimetico, retaggio solo di noi Occidentali in due fasi storiche, quella classica greco-romana, e poi la successiva diciamo così rinascimentale, proprio fino all’Impressionismo, sconosciuto invece alle altre culture del mondo, ci ha aperto le porte alla conquista dei continenti. E dunque, a ben vedere, l’interessamento nutrito allora per le soluzioni giapponesi, è stato un “fin de non recevoir”, in definitiva gli Impressionisti, con Monet alla testa, allora dissero, un “grazie no, noi continuiamo per la nostra strada, applicando il buon realismo della tradizione”, tanto più che ormai risultava suffragato dall’arrivo della fotografia. E allora, per avere un effettivo impatto dello stile “giapponese”, bisogna attendere il momento in cui l’”impressione” sia pittorica che fotografica entra in crisi. Il che, presso di noi, avviene solo attorno al 1888, quando Paul Gauguin, davvero rivoluzionario, fonda la Scuola di Pont Aven, basata sull’intuizione che l’universo prospettico albertiano ormai sta morendo, sostituito dall’impatto delle nuove energie dell’elettromagnetismo, con quella enorme velocità della luce che schiaccia ogni rilievo, e dunque le soluzioni frontali, immote, tutte tramate in superficie, di Hiroshige e compagni, diventano davvero istruttive.
Mi è stato necessario svolgere questa lunga premessa, che il più delle volte resta incognita ai nostri studiosi, per sgombrare il campo da falsi fantasmi, dopodiché è possibile andare ad apprezzare lo snocciolarsi di queste deliziose visoni panoramiche dell’artista giapponese, non molto diverse dagli altri due che lo hanno preceduto. Questo è il linguaggio che si conviene alla nostra età dominata dal mosaico elettronico, che appiattisce, che ama procedere per ampie campiture, di cui in definitiva il miglior frutto sta nei cartoni amati, di cui non per nulla proprio gli artisti giapponesi sono i migliori produttori. Se insomma a fine Ottocento essere “japonard”, come si diceva per il Nabi Pierre Bonnard, era una avventura apripista, oggi si tratta di una via maestra, aperta a tutti, su cui noi Occidentali dobbiamo metterci in coda dimenticando la spocchia nutrita in altre epoche. Oggi insomma dobbiamo essere tutti “japonards”, ma perché la tecnologia ha subito una svolta liquidando il vecchio sistema fotografico-rappresentativo. Oppure no, dobbiamo riconoscere che esso è ancora con noi, affidato agli infiniti scatti che si prendono col telefonino, ma tanto vale allora lasciar cadere l’inutile mediazione del “fatto a mano”. Oggi l’arte visiva o pratica l’astrazione, o si affida al “tale e quale” della ripresa fotografica diretta.
Hiroshige, a cura di Rossella Menegazzo. Roma, Scuderie del Quirinale, fino al 29 luglio. Cat. Skira. Hokusai, Oltre la grande onda, a cura di Timothy Clark, Einaudi, pp. 351, euro 75.