Confesso di essermi recato a visitare l’enorme mostra realizzata da Germano Celant per la Fondazione Prada, “Post Zang Tumb Tuuum” con il timore che fosse venuta addosso a una vasta impesa condotta da me e da altri per il Comune di Milano nel 1982, “Annitrenta”, che forse della città ambrosiana è stato anche il maggiore evento espositivo in assoluto. Sospetto subito fugato per varie ragioni, in quanto il nostro intento di allora fu di concentrarci su un solo decennio, appunto gli anni Trenta, in cui si perfezionò la dittatura fascista, col sospetto che ogni realizzazione nata in quel tempo fosse inficiata da quelle specie di piaga dilagante. Invece noi dimostrammo che l’arte italiana, seppure il più delle volte scevra da intenti polemici verso il regime, e anzi assai spesso consenziente e anche pronta a trarne vantaggi, marciò per la sua strada con grandi esiti innegabili. Cominciamo invece a vedere i tratti distintivi dell’attuale rassegna. Intanto, colpisce l’adozione dell’inglese come lingua ufficiale nel catalogo, quasi troncando il dibattito in corso presso di noi. No, se si vuole un prodotto da esportare, come pretende essere la presente mostra, l’unica è conformarsi alle esigenze di mercato, lasciando alla nostra lingua una particina minore, relegata in appendice. Del resto, non per nulla Celant è detto scherzosamente l’AmeriKano. Utili indicazioni vengono anche dal sottotitolo, che intanto segnala il periodo assai più vasto abbracciato, 1918-1943, e poi i tre termini che vi compaiono, “Art Life Politics Italia”. Purtroppo l’ordine di queste tre componenti è da invertire, il curatore ha premiato i due secondi aspetti, questo è un grande affresco della vita e della politica in Italia nell’intero periodo, dove l’arte viene a rimorchio. Gli artisti e i relativi movimenti sono chiamati in campo, ma solo quando la storia, o la cronaca dà loro la battuta, prima devono attendere pazientemente nel retroscena. Succede così che non si rispettano i tempi reali, almeno secondo l’orologio degli stili per farli apparire, non solo, ma la loro presenza viene spezzettata in tante comparse alla spicciolata, alcuni ritornano quasi ad ogni passo, come per esempio Wildt, Sironi, Casorati, avendo però il loro percorso smembrato in tante tappe. Si potrebbe anche usare una metafora presa dal campo ciclistico, questo è un modo per “spezzare i cambi”, non si speri di vedere un decorso organico dei vari “ismi” succedutisi in quegli anni, poniamo, “richiamo all’ordine”, Novecento italiano, Artisti di Parigi, i Sei di Torino, le varie Scuole romane. Un capofila fa appena a tempo a comparire, che subito la sua presenza è “spezzata” dal comparire di un qualche avversario, o semplicemente diverso da lui, dato che a comandare è l’asse storiografico, o cronachistico, degli eventi esterni, a cominciare da mostre, premi, concorsi pubblici, che ovviamente quasi sempre mescolano le carte, pescano a destra e a sinistra, elaborano dei menu stuzzichevoli. Certamente il rispetto di un contesto storico è importante, ma nella nostra mostra le varie tendenze comparivano ben distinte, forse anche per il vantaggio di pescare entro un unico decennio che quindi procurava di per sé il compattamento delle presenze, consentendo a ciascuna di esse di dipanare un proprio autonomo svolgimento. Qui c’è un effetto paradossale, l’enorme catalogo funziona meglio della mostra, in quanto esso è affidato a una schiera di collaboratori, spesso molto validi, i quali ricostituiscono i loro orticelli, riuniscono le vicende che invece in mostra sono interrotte per la dittatura degli eventi esterni. Che dominano anche nella selva dei documenti da cui è allagata la mostra, quasi più da leggere, magari grazie ad enormi proiezioni, come del resto oggi avviene per effetto della sostituzione del cartaceo con l’elettronico. Infatti al termine del primo tratto espositivo entriamo nella semioscurità di un salone animato da enormi tatzebao elettronici, cangianti per accrescere la propria capienza. E sui tavoli, ad ogni angolo, c’è pure una selva di cataloghi, riviste, monografie, bravo chi avrà il tempo di esaminarli tutti. Si aggiunga che lo spazio Prada risulta inadatto a tanto sciorinamento di fatti e aspetti, non basta certo l’unico edificio eretto ex-novo, bisogna ricorrere ai lunghi bracci delle cascine preesistenti, percorrerle, ritornare sui propri passi, infilarsi di qua e di là, infine raggiungere la scatola centrale attraverso una passerella, procedendo dal primo piano al pianterreno. In conclusione, senza dubbio uno sforzo ingente, meritevole per tanti aspetti, ma da non avvicinare da chi, come me, viene della fenomenologia degli stili, ottimo invece per chi sia un cultore di interessi storico-politici per il ventennio, qui ricostruito in toto. Un’ultima osservazione: non so se sia stato opportuno porre il tutto all’insegna del fremente urlo futurista dello Zang Tumb Tuuum marinettiano, il Futurismo fece presto a sparire dalla scena, o dovette affidarsi a deviazioni aneddotiche, scenografiche, decorative, da Balla a Depero a tutto l’Aerofuturismo, che presto presero in gran dispitto le imprese contigue. Se ci fosse ancora qualche superstite di quel movimento, temo che si recherebbe in loco armato di pomodori per contestare tanti ritorni alla normalità, al figurativismo, che in effetti finirono per vincere, in quell’arco di tempo, qui ancora più ossessivamente presenti per la moltiplicazione dei pani e dei pesci, in quanto i vari protagonisti di qualche ritorno all’ordine ricompaiono a ogni pie’ sospinto.
Post Zang Tumb Tuuum, a cura di Germano Celant. Milano, Fondazione Prada, fino al 25 giugno. Cat. autoedito.