Arte

Cesare Tacchi, buon protagonista della Pop romana

Il Palaexpo di Roma dedica una opportuna retrospettiva a Cesare Tacchi (1940-2014) che della grande stagione della Pop Art nella nostra capitale è stato uno dei numerosi protagonisti, forse non proprio di prima fila ma comunque valido, degno di attenzione. Conducendo scelte sicure subito ai suoi inizi, quando, primi anni ’60, appena ventenne, partecipava al clima tipico nella Capitale di quanti praticavano una specie di minimalismo avanti lettera, lasciandosi alle spalle i residui della stagione informale e andando con sicurezza verso una stagione di rinnovato meccanomorfismo, in sintonia col pieno rilancio dell’industrialismo, dopo la crisi da cui era stato colpito proprio ai tempi dell’Informale. Penso ai Lo Savio e Uncini e Carrino, che oltretutto ben capivano come quel ritorno a un geometrismo netto e scandito dovesse accompagnarsi alla fuoriuscita dalla superficie della pittura e all’impiego di materiali costruttivi, come i metalli e gli intonaci. Tacchi, con scelta responsabile, si inserì in quel clima, ma praticando una variante significativa. Infatti usava un materiale tale da accettare, anzi, da sollecitare una squillante policromia, certi gialli, certi ocra densi e compatti, come del resto stava pure facendo il numero uno di quella situazione, Schifano. Ma ben presto il nostro artista ha lasciato cadere le sagome esatte e rigorose a favore di icone, ovviamente ispirate a temi “popolari”, di pronta presenza, a gara con le sigle pubblicitarie. Icone di figure, tracciate con solco rapido, con attenzione esclusiva ai profili, come se si trattasse di ombre cinesi. Del resto, si può parlare proprio di una stagione di rinnovato interesse verso i grandi stampatori asiatici, credo che la domenica prossima parlerò di un ospite alle Scuderie del Quirinale, di uno dei tre famosi litografi, nella fattispecie Hiroshige. Ebbene, i Pop romani, come già era avvenuto nelle lontane stagioni del Simbolismo, in quel momento hanno fatto di nuovo tesoro di quei suggerimenti. Ma nello stesso tempo il nostro Tacchi ha pure adottato una diversa eccellente soluzione. Infatti il carattere vuoto e aereo, filante, al risparmio proprio dei suoi profili lasciava tanto spazio libero sullo sfondo, e dunque come riempirlo? Ecco allora l’idea efficace di stendervi carte da parato, anch’esse con un piede nella banalità, nel kitsch o “cattivo gusto”, compagni inevitabili di esiti di Pop Art, che però nello stesso tempo già fanno l’occhialino a soluzioni di specie “citazionista”, di quelle che arriveranno circa due decenni dopo. Insomma, quei festoni decorativi si pongono abilmente tra il banale e il prezioso, il che poi trova conferma definitiva nell’imbottitura di poltrone o di divani che l’artista colloca nei suoi dipinti, ancora una volta con l’intento di riempire, di occupare nel modo giusto. Si aggiunga che si tratta di una occupazione tenuta in sospeso, tra uno schiacciamento di superficie, in modo da adattarsi alla superficialità sia dei profili iconici sia delle carte da parato, ma anche da aggettare di qualche pollice, strizzando l’occhio alle soluzioni plastiche decisamente tridimensionali di Ceroli, Marotta, Pascali, anche se su quella strada Tacchi preferisce fermarsi, non procedere oltre un certo limite. Vedo con piacere che per questo ricorso a imbottite, coperte, cuscini ed altri apparati domestici viene fatto un corretto riferimento a quanto stava producendo in quei medesimi anni Domenico Gnoli, invitandoci così ad allargare il panorama delle soluzioni da considerarsi unicamente legittime, come a dire il vero esigevano i critici allora al comando proprio nella capitale, penso a Boatto e Menna. Si pretendeva che la Pop Art di rito capitolino si barricasse in una sua pretesa purezza, di soluzioni limpide ed essenziali, guardandosi da possibili contaminazioni, quali in definitiva venivano considerate le proposte provenienti da Gnoli. Io allora fui il solo, assieme a Luigi Carluccio, che fossi disponibile ad appoggiare le sperimentazioni eteroclite di Gnoli, al punto da convincere un grande protagonista di quegli anni, Marcello Rumma, pur da una sede appartata come Salerno, ad acquistare uno di quei dipinti intimisti e para-surrealisti di Gnoli, venendo però subito sconsigliato da amici critici conterranei, e indotto a disfarsi di quell’opera ritenuta spuria, sconveniente. Per fortuna il medesimo interdetto non agiva su Tacchi, che riconosceva ben volentieri quella comunanza di soluzioni. Proprio in nome di un allargamento di panorama, e su invito di Rumma, io tenni in una sede da lui controllata, i vecchi Cantieri navali di Amalfi, una mostra intitolata “Ritorno alle cose stesse”, dove secondo il mio usuale modo di procedere non mi bloccavo entro un solo “ismo”, ma cercavo di raccogliere un mazzo di procedure simili, emergenti da vari centri, maggiori o minori della nostra penisola, tra Milano, Torino, Pistoia. Apprendo con piacere che ora sono in programma varie iniziative per ricordare proprio l’attività pionieristica e altamente meritoria di Marcello Rumma, da cui è scaturita l’attività anch’essa prodigiosa della moglie Lia. Del resto, è pure nella mia prassi essere convinto che la marcia degli stili non si ferma, che questi mutano, si rinnovano, conoscono svolte improvvise. Come fu proprio quella che a cavallo del ’68 pose fine all’iconismo della Pop Art, in tutte le sue ramificazioni, aprendo le porte a soluzioni del tutto aniconiche come quelle raccolte sotto la sigla dell’Arte povera di Celant. Infatti, fu mio il suggerimento dato all’amico Marcello di fare seguito alla ricognizione plenaria sull’arte oggettuale da me effettuata incaricando invece proprio Celant di offrire un primo spaccato del suo poverismo, cui io mi astenni dal partecipare per rispetto della dinamica alterna degli stili.
Il ’68 segnò anche l’inevitabile crisi nel lavoro di Tacchi, proprio perché ben difficilmente si può essere testimoni di ogni stagione. Egli ha continuato a lavorare quasi per un quarantennio, ma costretto a inseguire i nuovi fermenti, a tentare di adeguarvisi, e la presente retrospettiva fa bene a documentare questa lunga fase, in cui non mancano certo talune pensate intelligenti, in tono con le nuove soluzioni, che, detto in sintesi, hanno comportato l’abbandono totale delle soluzioni statiche, iconiche, per adottarne altre in movimento, nello spazio fisico o concettuale. Ecco che allora l’artista presenta se stesso, ma non certo in effigie, bensì con l’intero corpo, tentando di cancellarlo, di nasconderlo alla vista. E la campitura affidata al pennello non serve più a far risaltare i contorni, bensì a occludere la presenza. Oppure c’è l’invito al dialogo, con due basi su cui gli interlocutori sono invitati ad appoggiare i gomiti per discutere tra loro. Insomma, si va verso l’azione, la performance, con soluzioni senza dubbio ingegnose, ma che si allontanano via via dal porto sicuro raggiunto negli anni buoni di un esercizio ottimale, compiuto con totale rispondenza alle esigenze di quel tempo.
Cesare Tacchi. Una retrospettiva, a cura di Daniela Lancioni e Ilaria Bernardi. Roma, Palaexpo, fino al 6 maggio. Cat. autoedito.

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