Giuseppe Salvatori presenta la sua produzione recente alla galleria romana “La Nuova Pesa”, in cui anima fra l’altro una rassegna periodica, “Viva”, affidata a una originale forma di discussione orale, davvero dal vivo, di temi strettamente attuali. Ho avuto il piacere e l’onore di inserirlo fin dagli inizi, nell’ormai lontano 1980, nella pattuglia dei “Nuovi-nuovi”, da me sostenuta assieme agli indimenticabili Francesca Alinovi e Roberto Daolio. Quel gruppo, lo ammetto, ha sofferto sia di una certa genericità di etichetta, sia di un numero considerato eccessivo di componenti, una ventina, apparendo così meno valido rispetto ad altre formazioni più selettive e con etichette più specifiche (Anacronisti, Transavanguardia), ma credo che alla lunga stia emergendo, anche al seguito dei due che ne sono sempre stati i portabandiera, Luigi Ontani, oggi divenuto onnipresente, e Salvo, purtroppo da poco scomparso e in attesa di una retrospettiva che ne dimostri tutta l’importanza. Ma anche gli altri hanno fatto, e stanno facendo la loro parte, attraverso una formula che alla fine mi sembra vincente, posta in sapiente bilico tra passato, presente, futuro, ricca di aspetti della cosiddetta “citazione”, strizzando cioè l’occhio ai fasti della tradizione, ma nello stesso tempo dandone una versione stilizzata, di grande eleganza, in linea con gli esiti migliori dell’immagine elettronica quale si rivela nei cartoons, o anche negli spot pubblicitari, pronta pure a raccogliere la tradizione del decorativismo, come è avvenuto in alcuni momenti delle avanguardie, tra Art Nouveau e Art Déco. Tra i meriti pregressi dei Nuovi-nuovi, c’era stato anche quello di articolarsi in due branche, degli “iconici”, capaci cioè di elaborare icone in tutto degne della nostra attualità, e invece soluzioni aniconiche, da ricordare l’arabesco, il graffitismo, le scritture alternative di tante culture extra-occidentali che ora stanno trionfando, proprio sull’onda impetuosa e liberatoria dell’elettronica. Salvatori in questa comparsa romana si presenta con 27 tavole preziose, ispirate all’Iliade e al suo eroe principale, Achille, ma non si pensi a una “citazione” pesante, troppo leggibile, al modo degli Anacronisti. Si tratta invece di una scannerizzazione leggera, quasi impalpabile, che ricava dai gloriosi miti del passato una serie di brillanti soluzioni grafiche, e cromatiche nello stesso tempo. L’omaggio principale è reso allo Xanto, il fiume in cui Achille fu immerso per dargli una quasi totale immunità. Ma appunto il prelievo di tracce e suggerimenti, come linfa preziosa ricavata da una pianta del caucciù, viene raccolto in una specie di coppa, di abside, anche se offerta a noi capovolta, in estroflessione. Infatti in Salvatori c’è una vocazione architettonica, che potrebbe farne un eccellente decoratore di pareti e suggeritore di proposte monumentali, ma a una tentazione del genere, a fare grande, lo blocca un innato senso della misura, delle proporzioni, il che lo induce a privilegiare i supporti rotondeggianti, chiusi su se stessi, proprio come dei preziosi scudi di Achille, colmi, al loro interno, di quegli indecifrabili messaggi che sono venuti da una visitazione di oggetti e figure. C’è però un filtro, per cui i corpi, se troppo pieni, non passano la selezione, lo scanner invisibile cui mi sono già riferito si limita a ricavarne tracce, profili, nodi, stemmi. Quegli spazi rotondi diventano anche come dei caleidoscopi che l’artista agita, ricavandone combinazioni sempre rinnovate, con la preferenza di andare ad animare soprattutto i margini. Come un danzatore che sa ben dove stanno i confini della ribalta, ma li sfida, preferisce muoversi sempre al limite, a costo di uscir fuori dall’area protetta. Oppure è il logico effetto che si ha quando un volume tridimensionale viene costretto a schiacciarsi sul piano, e allora l’adipe, compressa, si raccoglie proprio ai margini, li movimenta, vi traccia una ridda di pieghe. Un artista meno inventivo di lui sarebbe inseguito dal rischio di cadere nella formula, di soluzioni troppo simmetriche a livello grafico, o troppo univoche a livello cromatico, dando luogo a un noioso monocromo. Ma invece il nostro Pino si libera ogni volta da questi pericoli, trova slancio, inventiva, estro per una curva in più, per una variante pur sempre al limite. Come un cercatore d’oro che agita nel setaccio quanto ha carpito dal reale, e ci fa ammirare le delicate orografie che si depositano sul fondo, che del resto corrispondono pure al materializzarsi delle linee di forza di un campo elettromagnetico.
Giuseppe Salvatori, Xanto, Roma, La Nuova Pesa, fino al 28 febbraio.