Martedì 14 novembre 2017 ho avuto l’onore di tenere una conferenza al Center for Italian Modern Art (CIMA) di New York in occasione della mostra che vi si svolge dedicata ad Alberto Savinio, con esposizione di una ventina di dipinti, perfetto concentrato della sua opera. Grandi sono i meriti di questa istituzione che punta a una presentazione organica di artisti e aspetti della nostra arte contemporanea, senza il carattere di rara eccezione con cui taluni nostri maestri sono omaggiati dai grandi musei newyorkesi. Col mio inglese stentato, ma, almeno spero, chiaro, quasi scolastico, ho giocato soprattutto la carta di una analisi, o addirittura psicoanalisi del formidabile duo di casa De Chirico, con Giorgio nella parte di mattatore, forte di quei tre anni di maggiore età rispetto al fratello Andrea (1888 contro 1891), e soprattutto del sostegno della madre Gemma Cervetto, rimasta vedova di Evaristo, scomparso troppo presto nel 1905, ma in grado di lasciare alla famiglia una buona situazione economica. La madre, donna autoritaria, aveva riposto ogni sua compiacenza a favore del primogenito Giorgio, sul cui conto nutriva “Great Expectations”, per dirla col titolo di un celebre romanzo di Dickens. Il figlio minore Andrea viveva in una situazione subordinata, fino al punto di abbandonare nome e cognome per altrettanti pseudonimi, Alberto Savinio, atto che forse si può leggere in due sensi, come prova di sottomissione al primato dell’altro, con la pronuncia di un “non sum dignus”, o invece come disperato tentativo di procurarsi una via autonoma. Su Andrea-Alberto pesò l’interdetto materno di non ostacolare la professione maggiore assegnata a Giorgio, solo lui doveva essere il “pictor optimus” per antonomasia. L’altro doveva accontentarsi di percorrere strade secondarie, per quanto del tutto onorevoli, come la pratica della musica e della letteratura, in cui eccelse con una serie di racconti di viaggio conditi, già essi stessi, di fughe nell’evasione onirica, nella fantasticheria a ruota libera. Ma soprattutto pensando alla grande impresa della metafisica, che fu quasi un dono, una prerogativa esclusiva della famiglia De Chirico, fu proprio Alberto ad esserne il critico puntuale, nel segno di una grande devozione verso la riconosciuta superiorità di Giorgio. Dobbiamo quindi attendere fino circa ai suoi trent’anni dì età per vederlo finalmente superare l’interdetto materno e fraterno e accedere direttamente lui stesso alla pittura. Da notare che da quel momento in poi non mi pare che continuasse a praticare con pari convinzione l’attività musicale, vista dunque come un “pis aller”, come un surrogato di una più rispondente pratica della pittura che gli veniva negata. Tra i dipinti iniziali abbiamo il “Ritratto di bambino”, forse un autoritratto, dove l’artista si presenta quale doveva essere nei suoi primi anni, ragazzo triste, timido, con un’aria malaticcia. Da notare anche che in questo come in altri primi lavori egli non osa affidarsi a un colorismo pieno, ma si attiene in prossimità del bianco e nero propri del disegno o della fotografia. Frugando su questi inizi, eccezionale è un ritratto del padre, visto anch’esso come figura debole, affondata nella lontananza. Da notare che la figura paterna non esiste nella produzione di Giorgio, e lo si capisce, egli non aveva bisogno di chiederle assistenza, a ciò provvedeva con abbondanza l’amore ossessivo, possessivo prestatogli dalla madre. Andrea insiste nei teneri ricordi di famiglia, in un disegno in cui compaiono entrambi i genitori, con ai loro piedi un unico figlio, rappresentato come figura grassoccio, robusta, mentre non c’è traccia di lui stesso, un’assenza che anche in questo caso possiamo interpretare in due modi. O è il sentimento di una esclusione, oppure, più semplicemente, lo stato di fatto di un artista che si pone nei panni del fotografo chiamato a riprendere un quadretto domestico. Ma infine compare la madre, nel dipinto forse più famoso di Alberto, ma degradata al rango di sposa formosa, effigiata quasi con tratti folcloristici. Però quello che conta è che le sia accostata l’immagine ripugnante di un coccodrillo, nel che il figlio ripudiato consuma uno spirito di vendetta, di ritorsione, di profanazione. Si pensi invece come il prediletto Giorgio sia stato sempre pronto a celebrare la madre, trattandola alla stregua di un ritratto rinascimentale, e accostando a lei il suo proprio volto, entrambi innalzati ai cieli di un pieno valore auratico. Nel ricorso a quel coccodrillo troviamo anche la manifestazione della via specifica con cui Alberto aderisce alla poetica di famiglia. Pensando alla metafisica, dobbiamo proprio ritornare all’etimologia della parola, alla preposizione greca “meta” che, nelle nostre lingue occidentali, risponde al “trans”, cioè all’idea di uno spostamento, non necessariamente tale da negare i fatti fisici, ma senza dubbio come invito a spostarli, a mutarne l’ordine. Solo che questo coltivare il “meta” avviene, nei due artisti, in modi opposti. A Giorgio dobbiamo attribuire il compimento di “trasporti” lungo un asse verticale, da un presente volgare e incalzante verso lontane, gloriose mete storiche di impronta museale. Invece Alberto cerca e trova una via in proprio procedendo “lateralmente”, accostando a persone e cose dell’oggi immagini proveniente dal manuale di zoologia, o di geografia, o di paleontologia. In questo dipinto rivelatore, per esempio, sullo sfondo compare già una carta geografica, mentre c’è pure un riferimento a un’immagine super-classica. di quelle tanto care a Giorgio, ma non per nulla spostata di traverso, ovvero collocata lateralmente.
L’offesa, la vendetta contro la madre toccano il loro culmine nell’assegnarle la testa di un gallinaceo con tanto di schifosi bargigli pendenti. Ecco un modo di praticare la metafisica andando a pescare nel contiguo, che Giorgio non ammetterebbe mai. Del resto bisogna riconoscere che Alberto è coerente nel suo procedere, applica anche a se stesso una simile urtante metamorfosi. In un autoritratto ci si mostra con una testa di civetta, proprio come avviene in un film dell’orrore in cui un avventuroso scienziato tenta il “trasporto” di se stesso altrove entrando in una cabina, ma senza accorgersi che con lui è entrata anche una mosca, e dunque nella stazione di arrivo egli si ritrova proprio con la testa dello schifoso insetto.
Non sempre Savinio si sente in obbligo di consumare queste profanazioni vendicative nei confronti della madre, forse egli raggiunge il suo standard migliore quando in definitiva ammette lo stato di degradazione, di insulsaggine a cui la genitrice spietata lo ha condannato. Egli cioè accetta un pirandelliano “come tu mi vuoi”, mi escludi dalle vie maggiori della gloria concesse solo al primogenito? Ebbene, io allora mi avventuro in un mondo infantile, in una specie di Disneyland dove trovano posto balocchi, puzzle, giochetti a incastro, labirinti e altro. Un mondo in definitiva felice, lieto del suo disimpegno, che consente all’artista di darsi alla pittura in modi precisi, anzi, gli si può attribuire un precisionismo, un iper-realismo, o diciamo pure che in questi suoi deliziosi dipinti egli entra in collusione con un aspetto del Surrealismo ufficiale, con la linea Magritte-Dalì, come loro egli pratica una pittura di maniacale evidenza, raggiungendo la stessa leggerezza che troviamo nelle realizzazioni più virtuose di Dalì. Sembra quasi che l’artista imbarchi pile di balocchi su una nave per avviarli verso una fortunata Isola del tesoro. Qualche volta svetta su questi cumuli davvero una vela per prendere il vento, oppure questi grappoli incantati si librano in aria, leggeri, mobili, ma anche pronti ad atterrare, o a trasvolare su mari azzurrini. Da notare che gli oggetti sono presenti anche nell’arte di Giorgio, ma sempre disposti lungo un asse verticale, dove affiorano statue, busti di classicità greca, e accanto a loro cose banali dell’oggi, banane, occhiali da sole, guanti di gomma, dipinti “tali e quali”, in modi sfacciati. Mi è capitato molte volte di osservare che per questa via Giorgio va molto vicino all’artista che pure ne sembrerebbe il contraltare, a Marcel Duchamp e al suo “ready-made”. Il Francese prende i volgari oggetti dell’oggi “tali e quali”, “già fatti”, portandoli nell’opera. De Chirico li dipinge, ma in modi fedeli, senza alcun valore aggiunto. Invece, anche nel trattare questo versante dell’oggettistica, Savinio ci mette tutta la sua lateralità evasiva, ne fa un regno di delicati, o estrosi, o mirabolanti talismani. Forse, se avesse tentato di adire le vie di soluzioni plastiche, avrebbe potuto procedere come Joseph Cornell e comporre delle “scatole magiche”, colmandole appunto di cianfrusaglie, di “buone cose di cattivo gusto”, dandoci insomma una serie di “wunderkammern”. O, se vogliamo un tuffo verso i nostri giorni, avrebbe potuto procedere come Haim Steinbach, e dunque esporre quelle sue stimolanti scoperte allineandole una per volta sui ripiani di uno scaffale. Ma queste accumulazioni, queste piramidi sono eleganti, colme di promesse. In altri casi l’artista si dà a soluzioni teatrali, illuminotecniche, per esempio offrendoci delle ribalte, dei palcoscenici immersi nell’oscurità, da cui emergono dei tracciati luminosi ottenuti quasi simulando la pratica di quei minuti corpi elettrici che oggi si chiamano “led”. D’altra parte, le scelte di Savinio non sono mai unilaterali, la componente ”fisica” gioca sempre un suo ruolo, talvolta quelle aeree costruzioni veleggiano alte ma su una ribalta fatta di terra, di vegetazione ardita e accesa, tanto che ci sta pure l’accostamento a un’altra soluzione surrealista, quella di André Masson, che porta in direzione dell’Informale. Oppure, in altri dipinti, è presente una carnalità piena, magari dominata da uno dei soliti casi di metamorfosi animalesca, ovvero un concentrato di muscoli rispettosi del manuale di anatomia umana si vede però sormontato da una testa di tigre o di altro animale feroce. I passi “laterali”, gli sconfinamenti da un ambito del creato a un altro, sono sempre coltivati da Alberto, in rivolta contro gli esiti volutamente “sublimi” del fratello.