Una fortunata occasione mi permette di parlare contemporaneamente della coppia Monica Cuoghi-Claudio Corsello e di Eva Marisaldi, che furono tra i più importanti protagonisti di “Nuova Officina bolognese”, principale fatica critica del mai abbastanza compiano Roberto Daolio, con la collaborazione di altri talenti critici della città petroniana. Quella rassegna avvenne alla fine del ’91 e metteva in pista giovani artisti che, pur succhiando il latte dai sacri principi del ’68, con la cassazione dell’atto del dipingere e la promozione di tante altre modalità operative, rilanciavano però quelle pratiche con un estro e una fantasia mai venuti meno, nel lungo tempo che ormai ci allontana da quegli inizi. Un loro tratto comune potrebbe essere di aver ripreso, di recente, un qualche rapporto con vecchie tecniche del dipingere e del “fare quadro”. La coppia dei due ora non disdegna affatto di darci minuti dipinti, quasi tradizionali, o di trasferire su tela i loro arditi graffiti murali, che in definitiva sono il nocciolo duro di tutta la loro presenza. Ma, chiamati ad allestire alcune sale al MACRO di Roma, hanno fatto prendere a questo ritorno alla pittura delle vie del tutto insolite, o meglio, c’è stato in loro un ritorno alle origini, in quanto la ricomparsa della pittura è avvenuta per delega. I due hanno condotto una razzia di dipinti tradizionali contenuti nel museo, pare in numero di 239, collocandoli a parete, come a costituire una quadreria del tutto convenzionale, o appunto museale, ma poi hanno scatenato su quella quieta e pacifica parata una serie di fulmini, come inserire delle graffe spaziali per dare unità a una visione altrimenti multipla e spezzettata, o immettervi con violenza una circolazione sanguigna, o sottoporla a un elettrochoc. Il che è avvenuto ricorrendo ai tubi al neon, e ritrovando con questo mezzo folgorante ed energetico al massimo i percorsi sottili, incisivi cui ricorrevano nel loro esercizio di graffitisti, dove accanto alle icone vergate con bombolette il neon faceva già di frequente la sua comparsa. Ma in definitiva qui c’è un avvicinamento tra i due corni del problema, in quanto i gas nobili e rarefatti scorrono entro tubicini con pareti colorate, e dunque c’è una sorta di pittura tecnologica, rarefatta ma penetrante e diffusa che accompagna, o fa il controcanto, al coro sommesso dei dipinti che se ne stanno dal canto loro quieti e immobili nelle loro collocazioni risapute. Ma certo questa è solo una tappa provvisoria nel percorso sempre vario e imprevedibile della nostra coppia ultra-sperimentale.
Eva Marisaldi espone in una Galleria privata, la De’ Foscherari di Bologna, che però, data la storia alle sue spalle, funziona già come una istituzione in loco. Se si vuole, anche Eva in questa occasione sente il richiamo della pittura, ma amministrandolo a modo suo. In fondo, ogni volta che ho affrontato sul piano critico il suo percorso, ho sempre detto che in lei c’è un quasi morboso attaccamento a una orizzontalità, sia essa data da una superficie o da una linea. Forse il suo lavoro più spettacolare Eva lo ha fatto in una sede di Neon, la galleria massimamente sperimentale della nostra città, quando riempì un sottoscala di una melma tecnologica, come fossero pericolose sabbie mobili pronte a inghiottire chi avesse osato immergervisi. In questo caso le pareti della galleria sono tappezzate da una serie di fogli in cui si sviluppa una linea d’orizzonte, il confine di visioni marine di blu intenso, disposte in fila come per una “graphic novel”, o come se fossero pronte per essere fotografate una a una onde ricavarne un video, secondo la prassi manuale, artigianale cui si affida il videoartista Kentridge. Ma qui appunto la strip, la lunga, paziente strisciata è stesa proprio per far trionfare un orizzonte basso, tipico del mare, su cui si protendono anche dei moli, o si colgono le sagome di bastimenti, che però sanno bene di dover “volare basso”, come se la dimensione in alto fosse loro negata, o ci fosse un colpo di rasoio a reciderla inesorabilmente. Pare che Eva si sia ispirata proprio alle vedute marine del capolavoro giovanile del regista Polanski, “The Big Knife”, ma ci sta un riferimento anche ai grandi navigatori del mistero, con Joseph Conrad in prima linea, senza dimenticare lo Stevenson dell’Isola del tesoro. Infatti, accanto a questa orizzontalità tesa, oltranzista, l’artista usa altre carte, il lato esotico e avventuroso di questi panorami marini si esprime con la comparsa di uccelli esotici dalle piume variopinte, a ricordarci che dall’officina Marisaldi escono dei video “phantasy”, o, rimanendo alla sua piattezza di base, tante fiches, bidimensionali ma coloratissime. Del resto, l’artista non disdegna di coltivare, in contrappunto a tanta orizzontalità, anche la verticale, di scatole che drizzano le loro pareti inanimate, inorganiche, a contrasto coi palpiti marini. E in alto ci sono anche come delle passerelle, o delle gomene che si asciugano all’aria, tese magari per ospitare la marcia di qualche scimmia acrobatica, o di quegli acrobati mentali in cui Eva ci invita a tramutarci. Non è finita qui, infatti, ritornando al senso di un’avventura marina alla scoperta di nuove terre, sappiamo bene che la presenza di queste, come nel viaggio favoloso di Colombo, è annunciata quando, sul pelo dell’acqua, compaiono ammassi di alghe o di altra vegetazione. Ebbene, con ricorso a disegni dal segno sottile, anche qui compaiono dei fogli che si gonfiano per il compenetrarsi di sagome, di tracciati, di scorie, come se fossero i residui di quanto non è ruscito a filtrare attraverso l’inflessibile processo di riduzione all’orizzontalità, alla “flatness”, a minacciarne il dominio.
Monica Cuoghi-Claudio Corsello, “Rolando”, Roma, MACRO, fino al 26 dicembre
Eva Marisaldi, “Surround”, Bologna, Galleria De’ Foscherari, fino al 31 dicembre.