Nel dicembre scorso (2016) sono stato chiamato nella sede di un teatro bolognese a commemorare Pier Vittorio Tondelli, leggendo e commentando un brano della sua opera. Mi erano compagni in questa impresa due narratori molto legati allo scomparso, Enrico Palandri e Mario Fortunato. Una felice coincidenza vuole che essi facessero subito seguito, in un mio volumetto di nessuna fortuna, “E’ arrivata la terza ondata”, a un ampio esame dedicato a Tondelli (p. 42, se qualche ben intenzionato volesse ritrovare il volumetto, ora battente la bandiera Marsilio). Poi, come succede, i percorsi suo, di Palandri, e mio si sono allontanati, con un riavvicinamento improvviso per la circostanza appena ricordata, e per l’invio, da parte sua, dell’ultima sua fatica narrativa, “L’inventore di se stesso”. In preparazione di questo mio scritto, sono andato a rileggermi quanto scrivevo allora su “Boccalone”, cui Palandri deve la fama iniziale, col rischio, comune a quanti cominciano con un forte successo, di essere poi legati a quell’opera prima, loro stessi costretti a riprenderla pur con sapienti variazioni, A quella prima prova accreditavo i meriti di averci dato, col protagonista Boccalone, un felice protagonista di “gioventù bruciata”, secondo i parametri convenienti a una situazione anni Settanta, alla pari del resto con le creature tondelliane. Come suo tratto distintivo, riconoscevo anche caratteri “… di leggerezza, di svagatezza, di questa prosa, che si ferma a uno stadio di pur deliziosa provvisorietà”. Ebbene, è un giudizio che, quasi un quarantennio dopo, può convenire anche a questa prova recente di Palandri, pur di effettuare i dovuti cambiamenti, non tanto nello stile, quanto nei contenuti. Siamo in apparenza a una “autofiction”, il filone che oggi va tanto di moda, ma in questo caso direi che possiamo stare sicuri del prevalere del versante “fiction”, non credo che nessuno dei tratti, di personaggi e vicende che qui compaiono, rispondano davvero all’autobiografia dell’autore. Il protagonista ci parla spavaldo in prima persona, fino quasi a nascondere sotto il prorompere di questa sua soggettività, i propri dati anagrafici, Infatti non saprei riportarne nome e cognome, ma certo è un equivalente invecchiato di Boccalone, cioè un personaggio sognatore, amante del nomadismo, sia intellettuale che geografico. Lo incalza però un versante borghese, coi piedi ben per terra, in cui del resto egli mostra di sapersi adattare benissimo. C’è un suocero tutto portato agli affari che inevitabilmente diffida di lui per le sue tentazioni intellettuali, ma alla fine lo accetta, visto che diversamente avrebbe come erede un figlio debosciato, un altro Boccalone potenziale ma del tutto privo di virtù compensative. Del resto, a intraprendere una via di pieno successo affaristico assistono il nostro dialogante in prima persona sia una sorella, Olga, se possibile ancor più portata di lui agli affari, sia una moglie, Laura, anch’essa inflessibile nel tenerlo su un diritta via. E dunque, per ritrovare il versante nomadico, magnanimo, esuberante, degno dei tempi di Boccalone, deve intervenire il padre, portatore sia di un nome, Gregorio, che invano vorrebbe infliggere al nipote nascituro, sia un cognome, Licudis, che sarebbe di nobile prosapia, già portato da un antenato veneziano, ebreo, finito addirittura al servizio di Pietro il Grande, e da lui inviato in qualità di ambasciatore, o forse meglio di spia sulla Laguna. Poi si scoprirà che questo preteso lignaggio di grande livello è una pura e semplice invenzione del padre, in realtà si tratta di un povero orfano cresciuto in collegio, e dunque anche il padre alla fine raggiunge lo status originario di un Boccalone. Tuttavia queste origini nobiliari vantate rafforzano nel figlio il versante nomadico portandolo a escursioni sia su carte d’archivio, alla ricerca delle tappe di questo favoloso albero genealogico, sia nei luoghi in cui l’epopea familiare si sarebbe consumata. Tra i due rami del racconto c’è qualche discrepanza, forse Palandri concede troppo alla fase di ricostruzione degli annali della famiglia, così sfiorando esiti citazionisti, da NewI Italian Epic, sfidando i rigori filologici dei Wu Ming, Ma poi il tutto, come già dicevo per il Boccalone di partenza, si attenua, quando l’”inventore di se stesso” ritrova i toni leggeri, evasivi, anticonformisti, nei fatti e nello stile, che gli sono più congeniali.
Enrico Palandri, L’inventore di se stesso, Bompiani, pp. 156, euro 15.