Tra i tanti temi che si affacciano periodicamente c’è anche quello della scuola, su cui Angelo Panebianco è intervenuto lunedì scorso 4 settembre sul “Corriere”, e oggi, seppure di passaggio, ne ha detto qualcosa anche Francesco Giavazzi. Entrambi hanno manifestato, in materia, una tipica visione liberal-conservatrice, diciamo pure di destra, al cui confronto può delinearsi una visione di sinistra, come quella sempre da me professata. Purtroppo, a dare loro qualche ragione, c’è il fatto che le scelte giuste, fatte via dal centro-sinistra, nelle varie anime e conduzioni, volte ad “aprire”, ad allargare gli accessi, sono poi state invariabilmente bloccate da interventi di uguale fonte, volti a chiudere, a limitare. Andiamo a vedere. Credo che sia stata giusta e necessaria l’apertura avvenuta non so bene quando, del resto in questi miei appunti a ruota libera, forse destinati al nulla, non mi preoccupo molto di starmi a documentare. E’ stato giusto porre fine al ridicolo, anacronistico pregiudizio che solo gli studi classi, con tanto di greco e di latino, fossero in grado di aprire le menti e di consentire l’accesso a qualsivoglia facoltà universitaria, Era invece la sopravvivenza di un criterio classista, di buona borghesia, che voleva destinare ai propri rampolli la via diretta alle lauree, impedendola ai provenienti da classi sociali inferiori, destinati agli studi tecnici, negati all’accesso universitario per le scarse risorse economiche delle rispettive famiglie, beninteso con le dovute eccezioni, per cui anche uno come me, di provenienza da piccola borghesia, ha visto i genitori fare sforzi per conquistare ai figli una promozione sociale. Ridicola la tesi di fondo, se si pensa che nel mondo una minima percentuale di laureati ha nel suo curriculum studi di latino e di greco, eppure questo non impedisce loro di mietere premi Nobel in tutto l’arco delle scienze, cosa vietata ai nostri pretesi super-maturi in quanto filtrati dalla pseudo-eccellenza delle lingue classiche. Giusto, dunque, liberalizzare gli accessi, consentire che alle università ci si presentasse con qualsivoglia maturità acquisita, attraverso una frequentazione quinquennale, unico requisito da rispettare.
Ma poi le università hanno remato contro introducendo, in tanti casi, il numero chiuso, che è un palese gesto di sfiducia sulla capacità di giudizio dei colleghi dell’insegnamento medio-superiore. Non ci si può fidare delle maturità da loro concesse, occorre una verifica ulteriore. Senza dubbio sappiamo del reato di manica larga che si commette nel concedere questa buonuscita dalle medie, ma il modo giusto sarebbe di vigilare, controllare, con ispezioni e altro, affinché questi titoli fossero assegnati a ragion veduta. In questo modo, invece, la scuola statale mette in dubbio se stessa, non si fida dei responsi dati da un precedente livello di studi. Se qualcuno sbaglia a iscriversi a una facoltà per cui non ha né attitudine né preparazione sufficiente, deve esserci una selezione interna, attraverso esami condotti con la opportuna severità, tali da convincere l’iscritto a cambiare al più presto, a passare a un curriculum più su sua misura. Si sa invece quanto balorde e assurde siano queste prove di selezione, basate su quiz, i cui esiti vengono spediti a solerti informatici indiani. L’unico criterio di selezione accettabile dovrebbe essere solo di carattere quantitativo, se cioè una qualche facoltà dimostrasse di non essere in grado di ospitare più di un certo numero di frequentanti, ma in questo caso toccherebbe al governo garantire che nel complesso ci fosse disponibilità adeguata ad accogliere tutti i richiedenti.
L’altro aspetto contraddittorio è insito nel criterio tre più due, che a un certo punto è divenuto legge di stato, dopo che in una prima fase l’allora ministro dell’istruzione Berlinguer si era sbracciato a dichiarare intangibile la misura quadriennale, Ma, si è detto, la tre più due è stata scelta europea, argomento capitale, l’istruzione sarebbe proprio uno di quei pilastri che l’UE dovrebbe avere in comune. E sarebbe un ripartizione logica, se si fosse stati capaci di dare sbocchi professionali ai triennalisti. Ma in proposito si è compiuto uno dei quei capolavori di suicidio del nostro ministero dell’istruzione. Si sarebbe dovuto consentire che appunto col triennio di primo grado si potesse andare subito a insegnare nelle scuole elementari e medie. Nossignori, si è imposto di acquisire anche la laurea cosiddetta magistrale, del biennio successivo, magari con ulteriori due anni di specializzazione. Un capolavoro negativo, che poi ha riscontro in ogni altro settore professionale, riducendo così il titolo triennale a carta straccia
Visto che siamo in tema, tocco un altro argomento, su cui sono già intervenuto in altre sedi, forse con maggiore visibilità. Ogni anno ci vengono propinate le classifiche mondiali sui migliori atenei, dove le nostre Università sono le cenerentole, questa volta pare che solo le due sedi di Pisa siano entrate per il rotto della cuffia. Il mio onore di ex-docente universitario si sente gravemente offeso, ho predicato che i nostri rettori dovrebbero rifiutare queste incredibili graduatorie, dove evidentemente primeggia l’anglofonia, e dove non si fa differenza tra università private dove si pagano rette enormi, e quelle pubbliche, che ovviamente sono più povere di strumenti ausiliari. A proposito, qui tocchiamo un pallino di Giavazzi, infaticabile predicatore dei vantaggi del privato sul pubblico. Ma il privato in Italia, a livello di scuola media, vuole dire istituti furbi che servono a promuovere gli asini. A livello universitario troviamo gli atenei con corsi per corrispondenza informatica, cari alla Gelmini, che in loro favore ha progetta la sua nefasta riforma. Allargando il discorso, Dio ci salvi dai “capitani coraggiosi” dell’industria privata, si pensi in che stato hanno ridotto Telecom, Ilva, Alitalia. Al confronto, giganteggia quell’enorme creazione dell’IRI, con cui il nostro Paese rivaleggiò col New deal di Roosvelt. E chi ha salvato il nostro sistema bancario, se non l’intervento dei miliardi dello stato?