Ho ricevuto un tipico prodotto della coppia Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi intitolato, traduco dall’inglese, “La freccia del tempo. Note da un viaggio in Russia 1989-1990” (Humbold Books), ma soprattutto mi spinge a parlare di loro il grandioso allestimento che gli è stato consentito dall’attuale Documenta, nella sede della Neue Galerie, tra le cose più forti di una edizione non particolarmente felice, come mi è avvenuto di dire in una delle ultime uscite sull’”Unità”. Del resto, quel riconoscimento è stato appena l’apice di una serie impressionante di presenze in tutte le maggiori manifestazioni internazionali, con qualche vuoto e assenza, semmai, proprio nel nostro Paese. E anch’io non è che sia stato assiduo nel seguirli, anche se avevo preso contatto con Angela subito nei primi Settanta, quando già aveva deciso di sorprendere la realtà “alla seconda”, attraverso immagini di riporto, come allora era consueto a seguito della Pop Art. Credo di avere nella mia collezione personale proprio una rosa stampata su lastra di plexiglas, come traccia dell’operato di Angela, ancor prima che incontrasse Yervant e facesse con lui coppia fissa nella vita e nell’arte. Il rivolgersi alla rosa metteva subito in gioco l’odore, il profumo di un fiore, e infatti ho avuto il piacere di invitare i due proprio alla prima delle “Settimane internazionali della performance” (catalogo ora riedito in facsimile dal MAMbo), quando, insistendo sull’immagine riprodotta, però la volevano già dotare di un tratto fisico, cioè di profumi, di odori, con molto coraggio, in quanto i responsi dell’olfatto, come del gusto, fin qui sono sfuggiti alla macchina riproduttiva fornita dai mezzi tecnologici. Ma era già l’assunzione di un atteggiamento di fondo, che poi sarebbe stato confermato da una lunga carriera, coronata da successi via via crescenti. Affrontare, sì, i reperti cinematografici presi da altri, ma non arrestarsi davanti a quelle riprese conformi, spesso ipocrite, intonate a valori retorici, bensì fare uno scavo in quei materiali, così ritrovando un rapporto “performativo”. Non per nulla in un’altra pubblicazione, dedicata loro dal Beaubourg in un’ampia rassegna del 2015, hanno definito “analitica” la loro “camera”, ma nel senso che la parola assume nella pscicoanalisi. Insomma, mai prendere per il giusto verso tutto quel materiale di archivio, ma al contrario fargli il contropelo, andando a scavare in esso, a strizzarlo, fino a mettere in luce di che sangue e lacrime esso sia gravido. Il che significa anche ristabilire un rapporto fisico con la pellicola, andare a toccarla, trattarla come una superficie da rispettare con tutti i segni del tempo da cui è gravata, macchie, vuoti, lacerazioni, conducendo un’operazione che dunque è l’esatto inverso del “cinema ritrovato”: non salvare, non ricondurre quei fantasmi al pristino splendore, ma al contrario accentuarne il processo di corruzione, come fossero dei supporti cartacei cui recare una violenza ulteriore, oltre quella naturale del tempo. Da qui, anche, l’altra procedura messa in atto dalla coppia, proprio a conferma di un rapporto fisico, corporale con quelle immagini, per salvarle dal conformismo che le minaccia. E’ questo l’intento di cavar fuori, come con le pinze, certe immagini, fiere di una manualità ostentata, di disegni, abbozzi, tracce sfuggenti, ma fortemente colorate, proprio per sottolinearne la presa fisica. Sto per presentare, qui a Cortina dove mi trovo ora, e ci sono anche i due qui celebrati, un romanzo di Roberto Pazzi, “Lazzaro”, che ha l’abitudine di spingere i propri personaggi, tuffati in imprese temerarie, ad affrettare i tempi nel protendersi verso le mete inseguite, fino a mutarsi in insetti, in mosche, in uccelli. Ebbene, ritengo che anche i nostri trasformino i loro occhi in quelli di insetti importuni che sorprendono le immagini standard, i sonni pacifici dei personaggi che vi figurano. Forse questi provano qualche fastidio nel sentirsi osservati a quel modo, forse abbozzano un gesto per allontanare da sé dei testimoni avvertiti come scomodi, ma non ce la fanno. Penso in particolare all’opera “analizzata”, ovvero scavata dalla nostra coppia, “Images d’Orient”, che poi corriponde anche a un “Tourisme vandale”. Questa è un’altra etichetta valida in genere per il loro lavoro, che affronta aspetti conformi, come sono tutti i viaggi turistici, ma con l’intento di condurli in modi vandalici, di procedere a un sottile e “perfido” boicottaggio. Per esempio, in quel film i nostri due hanno recuperato un viaggio di Edda Ciano in India, dove ogni scena è trionfalistica, improntata al più crasso colonialismo, con gli Occidentale che stanno in posa, fieri, sorridenti, beati dell’essere serviti da una schiera di gente del luogo compunta e devota. Forse non hanno percepito lo sguardo di testimoni spiacevoli, proprio come di insetti fastidiosi. Mi viene da ricordare altre imprese anticolonialiste della medesima forza, anche se condotte in modi apparentemente diversissimi. L’anglo-africano Yinka Shonibare costruisce dei manichini di dominatori occidentali rivestiti dai costumi dei popoli sottomessi, di cui si gloriano come di trofei di caccia, ma poi interviene il gesto spietato del decapitarli. Per altro verso qualcosa di simile fa pure William Kentridge, che come i nostri due si affida alla manualità ritraendo i poveri sudafricani sottraendoli alla miseria della schiavitù coloniale e avviandoli a trionfali parate. Nel complesso, non è il dato visivo a dominare le operazioni di Gianikian-Ricci Lucchi, bensì un ritorno di fiamma degli altri organi, il tatto soprattutto, o il visivo ma attraverso trattamenti elementari, colorazioni violente, viraggi, o al contrario cancellazioni. Certo, resta assente l’apporto dell’organo olfattivo, ma questo viene surrogato attraverso la fisicità incalzante degli altri responsi. E insomma, su tutto domina un carattere performativo, il che giustifica il mio proponimento di inserire anche loro nella serie annuale con cui ricordo i protagonisti delle ormai lontane “Settimane della performance”. Appuntamento quindi, almeno spero, per fine gennaio 2018, quando potrò condurre con loro un esame ragionato e “analitico” della loro straordinaria carriera.