E’ giusto che io intervenga senza indugio a ricordare in morte Francesco Leonetti (1924-2017), anche per sottrarlo a una lettura a senso unico cui mi pare siano ricorse le commemorazioni ufficiali sui quotidiani, tutte intente a mostrarcelo inserito nella squadra di “Officina”, a fare rispettosa corona a Pierpaolo Pasolini, avendo accanto tra gli altri mRoberto Roversi e Paolo Volponi. Quando ci libereremo della presenza fuorviante di Pasolini, questo corruttore di tutti i lieviti e valide iniziative della nostra letteratura del secondo Novecento? La sua presenza è tanto amata, tra l’altro, perché consente di partire con la lancia in resta contro Edoardo Sanguineti e compagni, contro la neoavanguardia verso cui si vuole perpetuare nei decenni la “damnatio memoriae”. Leonetti per qualche anno fu senza dubbio un convinto membro del gruppo “officinale”, ma fin dall’inizio si notava in lui una irrequietezza mobile e “aperta” che lo distingueva dal troppo “chiuso”, statico, neoclassico Pasolini, che tale sarebbe rimasto fino a quando, anche lui, verso la fine dei suoi anni, si decise ad “aprire”, ma in quel modo insensato e sbracato che si constata in “Petrolio”. Invece Leonetti, sensibile lumaca, aveva già messo fuori il capo e le antenne quando, pur nel quadro “officinale”, ci aveva dato la sua opera prima, “Fumo, fuoco e dispetto”, dove la stessa molteplicità delle parole tematiche inserite nel titolo era segno di una piena “apertura” e disponibilità verso la rugosa realtà dei nostri giorni. E un eccellente valore propedeutico lo aveva pure il successivo “Conoscenza per errore”, quell’errore che i suoi compagni officinali erano alquanto restii ad ammettere, confidando un po’ troppo nelle loro scelte “dure e pure” di carattere ideologico, abbinate a una ferma fede nei valori della tradizione, della terra, di una natura che bisognava mantenere irrorata della sana presenza delle lucciole. Di queste Leonetti invece non è mai stato un difensore, come del resto non lo era un altro membro valido di quel gruppo, Paolo Volponi, anche se in definitiva la sua narrativa ha documentato una battaglia continua tra i valori di un’esistenza sana, contadina, e invece l’invasione delle fabbriche, della civiltà industriale. Leonetti fu presto convinto che la difesa a oltranza di uno stato di natura, caro al suo compagno di quegli anni Roberto Roversi, era una trincea precaria e insicura, e fu pronto a chiedere il “doppio tesseramento” partecipando anche al Gruppo 63, fin dalla sua nascita in quell’anno a Palermo, senza più abbandonarne la frequentazione. Tra gli esiti migliori di quella fase intermedia ci fu “L’incompleto”, un titolo che era un segnale, uno stendardo, da issare in preparazione del successivo “Campo di battaglia”. Il torto del Pasolini poeta è stato di chiudere i suoi discorsi in una metrica barricata, impeccabile, mentre Leonetti sceglieva un terreno di mezzo, tra prosa e poesia, optando per le soluzioni informali, in libera uscita da qualsivoglia blindatura. Tanti sono i titoli di merito di questa sua militanza a favore dell’”aperto” su ogni fronte. Basterà ricordare il sodalizio raggiunto con Antonio Porta, quando su di loro ricadde la responsabilità di mandare avanti la difficile navigazione di “Alfabeta”, una volta che il fondatore Balestrini, accusato di connivenza con i movimenti eversivi degli anni ’70, aveva dovuto rifugiarsi a Parigi. Frattanto il Gruppo 63 riacquistava fiducia in se stesso, ricredeva nelle buone ragioni che lo avevano fatto nascere, tanto che, sempre al seguito dell’azione trascinante di Balestrini, ci fu una nostra prima auto-commemorazione tenuta addirittura a Praga, a colloquio con gli scrittori che si stavano liberando dalle pastoie del realismo sovietico, e ricordo bene che Francesco era là, combattivo, pugnace. Ma quella prima emersione fu ben poca cosa, rispetto all’altra che ci siamo concessi dieci anni dopo dando inizio agli incontri di RicercaRE a Reggio Emilia, anche se opportunamente noi della vecchia guardia avevamo deciso di fare un passo indietro per propiziare l’avvento di figli e nipoti. In quel momento Leonetti decise che proprio per distinguere tra la neo-avanguardia e l’altra successiva, magari da indicare con due “neo”, noi reduci da Palermo dovevamo chiamarci gli “antichi”, e ricordo con entusiasmo e dolore le gare che facevo con lui per stabilire chi dovesse prendere la parola per primo, a commento dei testi che i giovani nostri eredi avevano appena finito di leggere. Ricordo quella sfida tra noi due quasi alla stregua di quanto avveniva nel famoso Musichiere condotto da Mario Riva, quando i concorrenti facevano a gara nel suonare il campanello per acquisire il diritto di prima battuta. Ma poi la splendida operazione di RicercaRE dopo un decennio ha avuto fine, io con la mia testardaggine l’ho ripresa proprio nella città natale di entrambi, Bologna, da cui peraltro Francesco già tanti anni prima se ne era andato optando per una più “aperta” e stimolante Milano. Speravo che nell’occasione rinascessero i duetti tra noi sempre più “antichi”, purtroppo lui non era più in grado fisicamente di partecipare, ma quanto leggevo in uscita dal suo laboratorio mi confermava sul suo viaggio sempre mobile, inquieto, prensile, a costo di sacrificare la forma per i contenuti, catturati come da una superficie moschicida, reattiva, incalzante.